Basi neuronali dei movimenti di raggiungimento con l’arto superiore

Dai programmi motori alla codifica dello spazio

(Contributo originale)

 

Stefano Rozzi
Dipartimento di Neuroscienze, Università di Parma, Parma, Italia
Via Volturno, 39-E
Parma, Italia
e-mail: stefano.rozzi@unipr.it
Tel. +39 0521 903879
Fax. +39 0521 903900

 

A partire dalla fine del XX secolo lo studio del sistema motorio ha assunto un ruolo fondamentale nell’ambito dell’indagine sulle funzioni cognitive. Nella prima parte di questo articolo sarà proposta una revisione critica della letteratura neurofisiologica e neuroanatomica che ha mostrato come specifici circuiti corticali coinvolti nella programmazione del movimento siano implicati anche nella codifica pragmatica dello spazio . Nella seconda parte si discuterà come tale substrato neurologico sia anche alla base della percezione dello spazio, della formazione dell’immagine corporea e della costituzione stessa del senso di sé in quanto agente distinto dagli oggetti e dallo spazio circostante.

 

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Dal concetto di spazio sensoriale a quello di spazio pragmatico.

Fino a tempi recenti la visione dominante nelle neuroscienze cognitive prevedeva l’esistenza di uno spazio colto dai nostri organi di senso, analizzato in maniera seriale dalla corteccia cerebrale a diversi livelli di descrizione, fino all’emergere, grazie all’attivazione delle cortecce associative, di una percezione cosciente ed unitaria di ciò che ci circonda. Tale visione ha attecchito facilmente nell’ambiente neuroscientifico fortemente influenzato dalle idee cognitiviste classiche e che dava per scontata la correttezza del modello epistemologico cervello=computer. L’idea quasi ingegneristica di un processamento seriale input-output, del resto, è estremamente radicata anche al giorno d’oggi, nonostante numerose evidenze sperimentali ne abbiano dimostrato l’incompletezza, quando non l’erroneità.
In questa visione generale, è chiara la rilevanza che ha assunto lo studio dei sistemi sensoriali, e in
particolare, delle vie visive. Un importante lavoro anatomico (Ungerleider e Mishkin, 1982) condotto su primati (uno dei modelli animali più utilizzati negli studi di neuroscienze cognitive), mostra come
l’informazione visiva sia processata nella corteccia cerebrale in due vie multisinaptiche distinte: una che culmina nella corteccia parietale posteriore (via visiva dorsale), l’altra nella corteccia infero-temporale (via visiva ventrale). Gli autori propongono che la via dorsale sia implicata nell’elaborazione degli aspetti visivi necessari per localizzare gli oggetti nello spazio (via del dove) e quella ventrale nel riconoscimento dell’identità degli oggetti (la via del che cosa). Un decennio più tardi, attraverso lo studio dei deficit neurologici in pazienti umani, Milner e Goodale (1993) estendono tale concetto notando che, nell’uomo, lesioni della corteccia parietale posteriore possono determinare atassia ottica, un disturbo visuo-motorio che provoca errori nei movimenti di raggiungimento con il braccio di oggetti sotto controllo visivo in assenza di deficit percettivi, mentre lesioni inferotemporali provocano agnosie, cioè deficit percettivi di riconoscimento degli oggetti osservati in assenza di problemi nel controllo motorio su base visiva (e.g. prosopoagnosia, o agnosia per i volti). L’informazione visiva sarebbe quindi analizzata nelle due vie in maniera ridondante con scopi diversi: la via visiva ventrale sarebbe la via della visione per la percezione, la dorsale quella della visione per l’azione. Queste osservazioni pongono l’accento sull’importanza della visione non solo per fini percettivi coscienti, ma anche per la guida del movimento. Goodale, del resto, nota come organismi semplicissimi come l’alga Euglena siano in grado di modificare il loro comportamento motorio sulla base di stimoli visivi (intensità luminosa), pur essendo privi di capacità percettive coscienti, o almeno così è lecito supporre, visto che, nel caso citato, si tratta di un organismo unicellulare. Questo autore afferma che “la visione non si è evoluta per permettere agli organismi di percepire. Si è evoluta per permettere il controllo distale dei loro movimenti” (Goodale 2004, pag. 1159, traduzione mia). In altre parole, la percezione conscia avrebbe profonde radici in processi molto più di base, non necessariamente coscienti, emersi per mantenerci in vita, e potrebbero gemmare da questi come epifenomeno evolutivo.

Una spinta selettiva estremamente forte nei primati e nell’uomo è quella che porta ad un migliore controllo dei movimenti nello spazio. In effetti, oltre all’atassia ottica, lesioni della corteccia parietale posteriore possono provocare altre sindromi, tra le quali l’eminegligenza spaziale (o neglect). I pazienti affetti da tale sindrome ignorano gli oggetti e gli eventi nello spazio controlaterale all’emisfero danneggiato (nell’uomo quasi sempre il destro). Il neglect, quindi, pur essendo un deficit descritto come percettivo, sarebbe determinato dalla lesione della via della visione per l’azione. E’ allora errata o incompleta l’attribuzione di un ruolo puramente visuo-motorio alla corteccia parietale posteriore? In realtà le due sindromi parietali descritte sono causate da danni a regioni corticali anatomicamente distinte. Lesioni del lobulo parietale superiore possono determinare atassia ottica (Ratcliff e Davies-Jones 1972; Perenin e Vighetto 1988), danni riguardanti il lobulo parietale inferiore di destra possono causare neglect (Perenin e Vighetto 1988). Viene allora da chiedersi se la via visiva dorsale sia realmente omogenea ed unitaria.

Numerosi studi condotti a partire dagli anni 80 hanno mostrato che la corteccia motoria e quella parietale posteriore sono costituite da un mosaico di aree distinte dal punto di vista architettonico (distribuzione dei neuroni e tipi neuronali in un’area), odologico (connessioni anatomiche) e funzionale (si veda Rizzolatti e Luppino, 2001). In particolare è stato messo in luce come esistano dei circuiti preferenziali che connettono bidirezionalmente specifiche aree parietali e motorie. Sulla base degli studi anatomici, della distribuzione dei deficit funzionali conseguenti a loro lesioni e delle proprietà dei neuroni in esse contenute, è stato ipotizzato che la via visiva dorsale sia in realtà costituita da due componenti distinte: la via dorso-dorsale, culminante nel lobulo parietale superiore, coinvolta nel il controllo on-line del movimento, e la via dorso-ventrale, terminante nel lobulo parietale inferiore, coinvolta nelle trasformazioni visuomotorie necessarie per le azioni di raggiungimento e afferramento, e nella percezione dello spazio e delle azioni altrui (si veda Rizzolatti e Matelli, 2003).

Del resto una dicotomia radicale tra percezione ed azione sembra eccessiva, visto che, ci dice Sperry: “La percezione è essenzialmente una preparazione implicita a rispondere” (Sperry 1952, pag. 302, mia trad.), e che fare attenzione a qualcosa nello spazio, secondo la teoria premotoria dell’attenzione (si veda Rizzolatti et al., 1994) significherebbe programmare movimenti (corporei o oculari) verso quella regione spaziale, pur senza poi necessariamente metterli in atto. Quindi non dovrebbe stupire che una serie di circuiti coinvolti nell’organizzazione delle azioni sia anche coinvolta in funzioni percettive. Anzi, i meccanismi automatici (inconsci) che ci permettono di trasformare le coordinate e le dimensioni di un oggetto in movimenti appropriati per raggiungerlo ed afferrarlo, potrebbero essere il gigante, sulle cui spalle siede il nano della percezione (cosciente).

 

Il problema teorico della localizzazione delle funzioni

Numerosi studi elettrofisiologici hanno indagato alcuni dei meccanismi neuronali che sottendono queste funzioni. Prima di affrontarli, però bisogna delimitare il concetto di funzione e, ancor più, chiedersi se sia possibile localizzare una funzione complessa come la codifica dello spazio. Per affrontare questo problema, il fisiologo Anokhin (1949) sposta l’attenzione dal sistema nervoso a quello respiratorio, e nota che quando si cerca di localizzare la funzione respiratoria non si è in grado di definirne un organo come sede esclusiva o elettiva. Infatti, affinché lo scopo della respirazione sia portato a termine sono necessari numerosi organi: i polmoni, che scambiano i gas, il cuore che pompa il sangue, i muscoli respiratori che permettono di variare la pressione intratoracica, il sistema nervoso che li guida, ed altro ancora. Ogni organo partecipa, è un mezzo per arrivare al fine, identificabile con la funzione in esame. Risulta quindi necessario riferirsi ad un sistema funzionale. Similmente, la localizzazione di funzioni psicologiche complesse in singole aree o in semplici circuiti corticali non ha riscontro empirico (non sono mai state identificate aree in cui risieda la memoria, o la funzione percettiva, o lo schema corporeo) e non è neanche teoricamente giustificabile alla luce delle
conoscenze odierne. In altre parole la funzione di un’area cerebrale non è una funzione mentale. Questo non significa però che il cervello sia una sorta di rete distribuita in cui ogni area partecipa in maniera totipotente a tutte le funzioni, tant’è che in seguito a lesioni cerebrali specifiche, alcune funzioni non possono essere vicariate dalla neocorteccia rimasta integra. Si può pertanto dire che specifiche aree o specifici circuiti corticali svolgono un ruolo fondamentale nelle normali funzioni psicologiche, senza però che queste funzioni stesse siano necessariamente localizzate al loro interno.

 

Il circuito parieto-premotorio VIP-F4 e la codifica pragmatica dello spazio peripersonale

Esempio ben descritto in letteratura di funzione specifica legata alla codifica dello spazio è quello del
circuito che unisce l’area intraparietale ventrale (VIP) e l’area premotoria F4 della scimmia. Queste due aree sono anatomicamente unite da forti connessioni, contengono neuroni con proprietà funzionali simili e svolgono un ruolo cruciale nelle trasformazioni visuomotorie per i movimenti di raggiungimento. In particolare sono state studiate in dettaglio le proprietà funzionali dell’area premotoria ventrale F4 della scimmia. La stimolazione elettrica dei neuroni di quest’area evoca movimenti di braccio, collo e faccia (si veda Graziano, 2006). Inoltre i neuroni di F4 si attivano durante l’esecuzione di atti motori di raggiungimento di oggetti, a volte con una certa preferenza per una specifica posizione nello spazio (Gentilucci et al., 1988; Fogassi, et al., 1992). Infine, una cospicua popolazione di neuroni di F4 si attiva durante la somministrazione di stimoli sensoriali: tattili, visivi o uditivi (Gentilucci et al., 1983; Fogassi et al., 1996; Graziano et al.,1999). Alcuni neuroni visuo-tattili (neuroni bimodali) si attivano quando una particolare regione corporea viene toccata, o quando uno stimolo visivo viene avvicinato al campo recettivo tattile, nell’ambito dello spazio peripersonale (con spazio peripersonale si intende qui lo spazio raggiungibile con il braccio). Il campo
recettivo visivo rappresenterebbe quindi un’espansione tridimensionale del campo recettivo cutaneo (Fogassi et al., 1996). Bisogna però ricordare che i neuroni sono semplici cellule: ricevono segnali elettrici, li sommano, e, se il risultato supera un certo valore, inviano a loro volta segnali elettrici ai neuroni con cui sono anatomicamente connessi. Questo implica che un neurone bimodale codifica alla stessa stregua lo stimolo tattile che tocca il campo recettivo e lo stimolo visivo che vi si avvicina, nel senso che in entrambe i casi invierà un segnale elettrico uguale, del tutto indistinguibile da parte dei neuroni che lo riceveranno.

Quale è il ruolo funzionale di questi neuroni? Nella visione d’insieme dominante all’epoca di queste scoperte (si veda sopra) si poteva pensare che l’aspetto sensoriale fosse quello dominante (ipotesi visiva), e che l’informazione visiva potesse servire per costruire, a livello di corteccia parietale, una mappa spaziale unitaria necessaria per la generazione dei programmi motori. In realtà numerose evidenze sperimentali falsificano quest’ipotesi. In primo luogo, se si crede che l’organo della visione sia cruciale, allora bisognerebbe giustificare come mai il sistema visivo analizzi a fini percettivi lo spazio peripersonale in maniera diversa da quello extrapersonale, anche quando stimoli provenienti da questi due settori cadono nella stessa posizione retinica. Inoltre è stato dimostrato che i campi recettivi visivi non sono codificati in coordinate retiniche (come ci si aspetterebbe secondo l’ipotesi visiva), ma sono ancorati all’effettore corporeo, indipendentemente dalla posizione in cui l’occhio stia osservando, o alla posizione dell’effettore rispetto al resto del corpo (Fogassi et al., 1996).

 

Un paradigmatico neurone di F4 si attiva quando un oggetto viene avvicinato alla superficie dorsale
dell’avambraccio, e ne tocca la superficie, indipendentemente dal fatto che il soggetto stia osservando il braccio o stia guardando in un altra direzione, o dal fatto che il braccio sia vicino al corpo, o proteso in avanti. I campi recettivi, inoltre, non sono codificati in un sistema di riferimento unico (in prospettiva egocentrica unitaria), ma risultano piuttosto ancorati a singoli effettori motori (nell’esempio di prima sul braccio). E’ stato quindi ipotizzato (ipotesi motoria) che i neuroni bimodali non codifichino la posizione di uno stimolo in termini sensoriali astratti, ma gli atti motori potenziali necessari per andare a raggiungere un oggetto nello spazio con uno specifico effettore. Ad esempio, il neurone paradigmatico descritto prima potrebbe scaricare in maniera ottimale durante movimenti del braccio tali per cui un oggetto, posto in una certa regione dello spazio, attraversi il campo recettivo peri-braccio fino a toccare il campo recettivo tattile posto sul braccio stesso. Tale meccanismo, oltre che parsimonioso ed efficace per programmazione, esecuzione e controllo del movimento, potrebbe anche svolgere un importante ruolo cognitivo offrendoci un modo diretto, “incarnato”, di percepire lo spazio attorno a noi. L’identificazione di una certa posizione spaziale potrebbe quindi dipendere dall’attivazione della nostra rappresentazione neuronale dei movimenti necessari per raggiungere un oggetto lì posizionato (il neurone darebbe una definizione operazionale di quella posizione: “quell’oggetto è lì perché si raggiunge così”). Da notare che questa trasformazione visuomotoria avviene in automatico (inconsciamente) grazie ai nostri circuiti parieto-frontali senza necessità di percezione cosciente o di sforzi cognitivi.
I movimenti eseguiti nello spazio peripersonale vengono pertanto a costruire uno spazio pragmatico intorno all’individuo, spazio che ricorda molto quello descritto dal filosofo Merleau-Ponty: “lo spazio non è l’ambito (reale o logico) in cui le cose si dispongono, ma il mezzo in virtù del quale diviene possibile la posizione delle cose.” (Merleau-Ponty 1945, pag. 326). In quest’ottica, anche la molteplicità di sistemi di riferimento, difficilmente conciliabile con la nostra percezione unitaria dello spazio, e, ancor più, del nostro corpo, quasi destrutturato in singoli effettori, sembra avere una logica e, soprattutto, risponde in maniera efficace al problema antichissimo di muoversi nello spazio. Vi è però un’altra evidenza sperimentale, elegantemente dimostrata (Fogassi et al., 1996), che fa propendere per l’interpretazione motoria della risposta dei neuroni bimodali di F4: se uno stimolo viene avvicinato con velocità maggiore, il campo recettivo visivo di questi neuroni si estende di più in profondità. Questa modulazione non sarebbe necessaria nell’interpretazione visiva, mentre in termini motori ancora una volta ha pienamente senso: il matematico Poincarré sostiene che “oggetti che diciamo occupare lo stesso punto dello spazio non hanno niente in comune, tranne il fatto che
possiamo difendercene eseguendo una stessa parata” (Poincarré, 1908, pag. 87), ma, se dobbiamo parare un colpo, quanto più questo arriva velocemente, tanto prima dovrà partire il nostro movimento per poterlo intercettare nello stesso punto (velocità=spazio/tempo). L’idea che lo spazio sia codificato in maniera operazionale non è nuova nella storia del pensiero: il fisico (oltre che filosofo e fisiologo) Mach, sostiene che “i punti dello spazio fisiologico [sono] scopi di vari movimenti” (Mach, 1905, pag. 342); la novità è che per la prima volta si è identificato un meccanismo neurologico che possa essere sotteso alla costruzione dello spazio in senso sia pragmatico che percettivo.

La funzione di codifica dello spazio e di atti motori nello spazio, come si diceva sopra, non è svolta da una singola area corticale, ma da circuiti che uniscono aree parietali ed aree premotorie. Risposte neuronali molto simili a quelle dell’area F4 sono state registrate infatti anche nell’area VIP (Colby et al., 1993 Duhamel et al., 1998) e studi di risonanza magnetica funzionale indicano che un tipo di codifica simile è presente anche nella corteccia premotoria ventrale e parietale inferiore dell’uomo (Bremmer et al., 2001).

 

Molteplicità degli spazi pragmatici

Un recente studio elettrofisiologico (Rozzi et al., 2008) ha mostrato che nella corteccia parietale inferiore della scimmia si susseguono in maniera topograficamente ordinata, con parziali sovrapposizioni, aree contenenti rappresentazioni neuronali di atti motori finalizzati eseguiti con diversi effettori, come ad esempio, raggiungere o allontanare con il braccio, afferrare, rompere, o manipolare con la mano, mordere, leccare o esplorare con la bocca. Le regioni corticali in cui le diverse classi di neuroni motori sono state registrate, contengono anche neuroni con diversi tipi di risposte sensoriali: solo somatosensoriali nella regione di bocca, somatosensoriali e visive legate al tipo di oggetto o allo spazio peripersonale, nella regione di mano, e prevalentemente visive legate allo spazio peripersonale ed extrapersonale nella regione di braccio.

In altre parole, a livello di diverse popolazioni neuronali convergono le informazioni necessarie per la guida efficace di un atto motorio e il completamento del fine intrinseco dell’atto stesso: l’associazione di informazioni visive e somatosensoriali è cruciale per movimenti etero-diretti, ma non per mordere o
masticare, azioni che si svolgono al di fuori dal nostro campo visivo, e per le quali è sufficiente l’informazione tattile e propriocettiva. La descrizione di questo tipo di associazione multisensoriale e motoria ha portato ad ipotizzare che, a livello del lobulo parietale inferiore, vi siano diverse rappresentazioni pragmatiche di distinti settori spaziali: uno spazio lontano per esplorare con gli occhi (Andersen et al., 1997; Colby e Goldberg, 1999), uno peripersonale per raggiungere con il braccio allontanandosi dal corpo, uno peripersonale per manipolare, utilizzare e per portare verso il proprio corpo ed infine, uno spazio personale legato alla bocca e al viso (Rozzi et al., 2008). Nella vita quotidiana, un individuo, però, si trova normalmente ad agire in una molteplicità di questi spazi contemporaneamente, ad esempio, per mangiare dovrà identificare con gli occhi un pezzo di cibo, mirarlo, raggiungerlo col braccio (cioè trasformare la sua posizione in movimenti appropriati per entrare in contatto con esso), prenderne possesso (cioè trasformarne le sue caratteristiche intrinseche in termini di dimensioni, peso e forma in movimenti di afferramento efficaci), portarlo alla bocca e mangiarlo, ed è osservazione comune che i soggetti normali nell’esecuzione di tali azioni si muovono in maniera fluida, essendo una segmentazione del movimento in fasi temporali o spaziali non ben armonizzate tipica di soggetti con patologie neurologiche o psichiatriche. Le forti connessioni anatomiche presenti tra le regioni funzionali descritte (Pandya e Seltzer, 1982; Rozzi et al. 2006) suggeriscono che queste rappresentazioni di spazi e di scopi di azioni siano fortemente coordinate tra
loro, tali connessioni permetterebbero il dipanarsi fluido delle azioni ben descritta da Luria come melodia cinetica (Luria, 1973) e forse anche l’integrazione della molteplicità degli spazi pragmatici nella visione unitaria del nostro corpo e dello spazio tipica del soggetto sano.

 

Plasticità della rappresentazione dello spazio

Se queste ipotesi sono vere ci si dovrebbe aspettare che le diverse rappresentazioni siano fortemente plastiche e modificabili sulla base del nostro repertorio motorio e delle intenzioni che ci spingono ad agire.

Ad esempio posso prendere possesso di un pezzo di cibo con la mano o con una forchetta, e la stessa posizione spaziale deve essere tradotta in movimenti completamente diversi ma miranti allo stesso scopo.

Iriki e collaboratori (Iriki et al. 1996) hanno addestrato delle scimmie a raggiungere cibo usando la mano o impugnando un rastrellino simile a quello dei croupier dei casinò ed hanno registrato nell’area parietale superiore PEip le risposte di neuroni bimodali simili a quelli presenti nelle aree F4 e VIP. Alcuni neuroni rispondevano quando stimoli visivi erano mossi nello spazio peripersonale intorno alla mano, se la scimmia afferrava cibo con la mano, ma tali campi si estendevano ad inglobare il rastrellino quando la scimmia iniziava ad utilizzare tale strumento per recuperare cibo posto fuori dalla portata del braccio. Interessante notare che la modificazione della scarica del neurone avveniva nell’ambito di pochissime prove. Questo risultato indica chiaramente che la rappresentazione dello spazio non è statica né passiva, ma ha una forte radice pragmatica, si modifica velocemente in dipendenza dalla modalità di azione, ed è largamente inconscia, nel senso che non richiede necessariamente alcuna forma di accesso consapevole alla codifica dello spazio. Così il tennista non deve risolvere complesse equazioni per calcolare come colpire la pallina, ma semplicemente estenderà in maniera inconscia il suo spazio corporeo ad includere la racchetta, e questa diventerà automaticamente un’estensione del suo braccio, e, nella vita di tutti i giorni, non dovremo
concentrarci per calcolare l’ingombro della tazzina nel portarla alla bocca, ma potremo goderci il nostro caffè senza bisogno di grandi sforzi mentali. Questo ha anche un riscontro clinico nel fatto che esistono forme di neglect specifiche per lo spazio peri- o extrapersonale (Halligan e Marshall, 1991). Particolarmente interessante uno studio in cui ad un paziente affetto da neglect selettivo per lo spazio peripersonale è stato richiesto di completare il classico test di bisezione delle linee in diversi settori dello spazio (Berti e Frassinetti, 2000). I sintomi del neglect erano evidenti quando il compito veniva condotto nello spazio peripersonale e non quando la bisezione era condotta utilizzando un puntatore laser nello spazio extrapersonale, ma se quest’ultima posizione era raggiunta impugnando una bacchetta, il neglect ricompariva.

Mettendo insieme i risultati degli studi elettrofisiologici e neurologici brevemente descritti, risulta chiaro che il lontano diventa vicino quando c’è la possibilità di interagire direttamente con esso. Questo processo avviene in maniera automatica, ed ha riscontro nella scarica di singoli neuroni facenti parte di circuiti parieto-motori implicati nella programmazione del movimento.

 

La costruzione dello spazio: un’ipotesi ontogenetica

Risulta chiaro, da quanto fin ora descritto, che fonti di informazione diverse devono convergere per
permetterci di costruire azioni finalizzate, che, a loro volta, consentano di “creare” la rappresentazione dello spazio. Ma per la costruzione degli scopi di azione serve anche l’intenzione di agire. Quando inizia a costruirsi questo intreccio tra movimento e spazio? E, ancora più interessante, potrebbe questo processo di strutturazione dello spazio essere anche implicato nella costruzione dell’intenzione di agire, e, di conseguenza, del senso di sé come entità separata dal mondo?
Piaget, partendo dal presupposto che, nel bambino, il meccanismo di adattamento all’ambiente implichi continuità fra sistemi biologici e psicologici, tra sviluppo motorio e cognitivo, identifica vari stadi dello sviluppo. La fase in cui emergono la coordinazione visione-prensione e la costruzione dell’oggetto permanente, e in cui inizia a formarsi una distinzione tra sé e altro-da-sé, secondo questo autore, avviene nello “stadio senso-motorio”, intorno al diciottesimo-ventiquattresimo mese di vita, e porta, tra l’altro, allo sviluppo della capacità di “incorporare il nuovo al già noto o di riprodurre, e prima o poi, generalizzare, ciò che è appena stato scoperto” (Piaget e Inhelder, 1968, pag. 35). Considerando la coordinazione nello spazio e la percezione dello spazio, alla nascita il nuovo potrebbe essere la visione e il già noto il sistema funzionale somatosensoriale-motorio. Ma se il sistema necessario per agire è già parzialmente funzionante alla nascita, forse non ha torto Stern che anticipa moltissimo la fase in cui il sé si forma, ponendo il “senso del sé emergente”, per vari aspetti simile allo stadio senso-motorio di Piaget, nei primi due mesi di vita (Stern, 1985).

Recenti studi neuroscientifici indicano che il confine va in realtà spostato ancora più indietro alla vita fetale: è infatti possibile con la tecnica dell’ecografia quadridimensionale (tre dimensioni spaziali e tempo) studiare il comportamento motorio in utero. Attraverso questa metodica è stato dimostrato che intorno alla ventiduesima settimana gestazionale emerge una notevole differenza tra i movimenti diretti lontano da sé e i movimenti diretti verso il proprio volto. Questi ultimi sono ben lungi dall’essere movimenti incoordinati. In particolare, così come avverrà nella vita adulta, le traiettorie diventano rettilinee e le fasi di accelerazione e decelerazione sono già pianificate a seconda delle caratteristiche dell’obiettivo, sono ad esempio più lenti e precisi quando diretti verso l’occhio, più piccolo e delicato della bocca. In assenza di visione ed intenzione, movimenti inizialmente afinalistici producono dei risultati somatosensoriali. La sincronizzazione tra programma motorio e risultato del movimento potrebbe iniziare a creare un codice somatosensoriale-motorio che conferisce ai movimenti uno “scopo tattile”, iniziando, contestualmente la costruzione di uno spazio corporeo, dell’intenzionalità, e di una prima forma, estremamente corporea, preriflessiva, del sé. Alla nascita,
il bambino verrebbe al mondo già dotato di uno schema corporeo sensori-motorio, una protoforma di sé e di un certo tipo di intenzionalità, intesa come capacità di provocare un certo effetto attivando una rappresentazione motoria.

 

Con il parto, però, un nuovo mondo, si dischiude di fronte al bambino, grazie alla possibilità di localizzare gli stimoli esterni attraverso la vista e l’udito. Sarebbe in questa fase che agli schemi sensori-motori prenatali verrebbero associati queste nuove forme di informazione. Tale convergenza permetterebbe di creare nuovi schemi motori e di espandere il senso di spazio da un ambito puramente tattile e motorio ad uno peripersonale, raggiungibile ed esplorabile attraverso diversi effettori e organi di senso, e popolato da oggetti ed agenti altri da sé. I neuroni bimodali somatosensoriali e visivi e trimodali somatosensoriali, visivi e uditivi descritti precedentemente potrebbero formarsi in questo periodo, e con essi nascerebbe una nuova codifica di spazio, nuove possibilità di azioni, e il senso di sé ne uscirebbe profondamente modificato.

Questo processo va di pari passo con l’inizio di rapporti diadici (ad esempio con la mamma) e, più in
generale con l’inizio di una vita sociale. Interessante a questo proposito notare che studi sui movimenti intrauterini sono stati condotti anche su gemelli (Castiello et al., 2010), mostrando che la frequenza di interazioni tra gemelli aumenta nel secondo trimestre di gravidanza, e che la cinematica dei movimenti diretti verso il gemello mostrano un pattern che riflette una pianificazione motoria (simile a quella dei movimenti diretti verso se stessi e diverso da quelli diretti verso la parete uterina). Inoltre la fase di decelerazione estremamente lunga indica una notevole accuratezza nel raggiungimento del gemello. Questo spinge gli autori a suggerire una propensione congenita dell’uomo alla socialità, e una base non ego-centrica ma noicentrica intrinsecamente presente nell’essere umano (Gallese, 2010).

 

Il proprio spazio e quello altrui

La base neuronale di questo tipo di codifica noi-centrica è da molti identificata nei neuroni specchio. Questi neuroni, descritti la prima volta nel macaco negli anni 90 (Gallese et al, 1996; Rizzolatti et al, 1996; si veda Rizzolatti et al. 2014) si attivano sia quando la scimmia esegue atti motori finalizzati, sia quando osserva gli stessi atti eseguiti da un altro individuo. Quindi, quando osservo un altro individuo agire, la sua azione attiva una popolazione dei miei neuroni che scaricano quando io stesso agisco per raggiungere quel medesimo scopo. Quindi vedere l’azione altrui attiva la mia rappresentazione di quell’atto motorio (inteso come movimento e scopo), meccanismo che potrebbe permetterci di capire il significato delle azioni altrui. Ma in contesto sociale non ha solo importanza capire che azione stiamo vedendo, ma anche, saper rispondere appropriatamente. Per questo serve anche essere a conoscenza di dove l’azione osservata si stia svolgendo, in rapporto al nostro spazio personale/peripersonale o a quello di altri individui. Ad esempio un bimbo che vede la mamma prendere del cibo su un cucchiaio aprirà la bocca per farsi imboccare se i due spazi peripersonali si possono sovrapporre (e se ha voglia di mangiare), ma non se la mamma è lontana da lui di fianco ai
fornelli. Allo stesso modo nessuno di noi tenta di evitare l’intervento falloso di un giocatore nel campo di gioco, se si trova tranquillamente seduto sugli spalti, ma risponderà, piuttosto indignandosi o fischiando. La possibilità di codificare lo spazio in cui le azioni avvengono è quindi importante per guidare comportamenti cooperativi, competitivi o di evitamento, tutti di fondamentale importanza per ogni animale sociale, uomo incluso. Alcuni studi hanno cercato di identificare i substrati neuronali su cui questa capacità si possa fondare.

In particolare, un recente studio elettrofisiologico ha valutato le risposte dei neuroni specchio nel macaco quando gli atti motori osservati erano eseguiti all’interno del suo spazio peripersonale o al di fuori di esso (Caggiano et al, 2009). Una sottopopolazione dei neuroni studiati si attiva in maniera diversa nelle due condizioni, indicando che un atto eseguito vicino o lontano da noi viene codificato in maniera diversa.

Alcuni neuroni che rispondevano esclusivamente durante l’osservazione dell’atto nello spazio extrapersonale sono stati studiati anche eseguendo l’atto nello spazio di raggiungimento della scimmia, dopo interposizione di uno schermo trasparente che consentisse alla scimmia di osservare l’azione, ma le rendesse impossibile agire fisicamente in quel settore di spazio. Alcuni neuroni, in questa condizione, tornavano a scaricare come se l’azione si stesse svolgendo nello spazio extrapersonale. Anche in questo caso la possibilità di agire, e non la distanza geometrica determino come noi codifichiamo le azioni eseguite da altri e la loro collocazione spaziale.

 

Per contestualizzare l’azione è però anche necessario capire quale sia la portata degli atti degli altri, e cioè poter identificare lo spazio peripersonale altrui anche senza che essi stiano agendo. Un giocatore, ad esempio, non effettuerà un passaggio, se valuta che un avversario possa intervenire sulla traiettoria della palla (cioè se la palla passa nel suo spazio peripersonale). Tutto questo sembra, ancora una volta, essere estremamente complicato e richiedere un grande sforzo di mentalizzazione, ma uno studio elettrofisiologico trova una radice elementare a questo tipo di comportamento, già presente nei primati. Ishida e collaboratori hanno infatti registrato dei neuroni bimodali simili a quelli descritti sopra nella corteccia parietale della scimmia che si attivano quando una porzione del loro muso viene toccata o quando stimoli visivi vengono mossi nella regione peri-faccia (Ishida et al., 2009). Alcuni di questi neuroni si attivano anche quando gli stessi tipi di stimolazione vengono somministrati attorno o sul viso di uno sperimentatore posto di fronte alla scimmia. Il campo di risposta è discontinuo, e non occupa tutto lo spazio tra i due visi, ma si estende solo per una ristretta porzione di spazio intorno ad ognuno di essi, come se questi neuroni mappassero la posizione
dello spazio in un sistema di riferimento centrato sul viso, indipendentemente dall’appartenenza di questo viso. E’ probabile che questa codifica di spazio si sviluppi evolutivamente per permettere le interazioni sociali, permettendo di capire la portata delle azioni altrui e ponendo dei confini all’interno dei quali è possibile interagire o sconveniente muoversi. Del resto gli uomini entrano nello spazio peripersonale altrui solo in condizioni specifiche e soltanto con individui particolari, per esempio con persone con cui sono intimi (ad esempio per abbracciarsi), o con individui fortemente ostili (per lottare), o, ancora con persone di cui prendersi cura (per esempio per nutrire o curare). Questo aspetto comportamentale ha anche un profondo contraltare emotivo: al di fuori di particolari condizioni caratterizzate da una forte carica emotiva (per es. rapporti affettivi o terapeutici), o da un contesto di ritualizzazione (per esempio nella danza o nello sport), la presenza di qualcuno nel nostro spazio peripersonale è sentita con un forte senso di disagio. Questo però non avviene in alcuni pazienti con lesioni bilaterali all’amigdala, che, pur essendo assolutamente in grado di valutare le distanze, non sentono alcun disagio in una condizione di violazione dello spazio peripersonale (Kennedy et al., 2009).

 

Futuri sviluppi: come si conciliano la molteplicità degli spazi neurologici e l’unitarietà dello spazio coscientemente percepito

Da quanto descritto fino a qui, sembra che nel nostro cervello vi siano diversi meccanismi che si
sovrappongono: uno permette la codifica pragmatica dello spazio nel quale si può agire, uno la codifica del significato delle azioni altrui, anche in rapporto con lo spazio in cui queste avvengano, e di conseguenza delle possibilità di interazione con gli altri, e uno sottende la codifica emotiva dello stato di vicinanzalontananza.

Inoltre ogni livello si basa su un sistema di riferimento diverso: il primo descrive uno spazio centrato su singoli effettori motori, in una rappresentazione frammentaria del proprio corpo, il secondo uno
spazio intersoggettivo in cui il soggetto e gli altri sono trattati (stando alla codifica dei neuroni) come un unicum, in assenza di distinzione tra sé e gli altri, o tra le proprie parti corporee o azioni e quelle altrui, il terzo è invece una spazio ego-centrico, centrato su un sé unitario in quanto espresso dalle sue emozioni.

Ognuno di questi meccanismi risulta parzialmente indipendente dagli altri, come mostrato dal fatto che lesioni di regioni anatomicamente distinte possono determinare deficit selettivi. Come si armonizzano, allora, i diversi livelli di rappresentazione del sé e dello spazio nel soggetto normale? Come emerge la percezione unitaria che ognuno ha di sé, a partire da questi spazi multipli e sistemi di riferimento discordanti? Queste domande non solo sono di estremo interesse per la comprensione scientifica della mente umana, ma hanno anche una notevole rilevanza clinica, visto che numerose patologie neurologiche e psichiatriche portano a rappresentazioni diverse dalla norma delle proprie parti corporee, dello spazio che accoglie noi e gli altri, e dell’attribuzione stessa del sé. Esse rappresentano quindi alcuni dei quesiti a cui le neuroscienze del XXI secolo tenteranno di rispondere.

 

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