Il controllo corticale delle azioni manuali

Contributo originale a cura di Stefano Rozzi, Neurofisiologo e docente in neurofisiologia, Università degli Studi di Parma
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Il controllo corticale delle azioni manuali è una tematica piuttosto importante per chi utilizza la mano sia come organo effettore che come organo di senso. Mentre preparavo questa relazione mi sono chiesto: qual è l’immaginario collettivo? Se io penso in astratto alle azioni di mano a cosa penso? Prendendo spunto dal mio passato a me viene subito in mente la mano del pianista che suona, che è un compito molto elevato, perché significa tradurre delle emozioni in musica attraverso un gesto manuale. L’altra cosa che mi è venuta in mente è l’arrampicata. Chi fa arrampicata sportiva tasta la roccia, tasta la presa e con le dita riesce a leggere la miglior possibilità di utilizzare quella presa in maniera salda e di assicurare il proprio peso.

 

Oppure mi vengono in mente le cose più tipiche dell’uomo, e cioè l’utilizzo di utensili: in sala operatoria aprire le meningi e sollevare un vaso corticale richiede un’estrema fermezza, un’estrema precisione nel movimento.  Quindi se io penso in astratto, da uomo della strada, alle azioni di mano, penso a delle cose di estrema raffinatezza: tradurre le emozioni, ottenere degli scopi importanti come guarire, togliere una patologia, assicurare la mia vita.  In realtà c’è una crasi enorme con quello che ci viene dalla fisiologia, cioè se io penso “cosa so di come il cervello controlla il corpo?” penso a una visione assolutamente banalizzante e cioè a dei neuroni che scendono e attivano i muscoli e quindi ad un sistema che mi permette semplicemente di attivare dei tensori, delle molle, delle pulegge.

 

Questa è una visione estremamente sorpassata e oggi vorrei porre l’accento sul fatto che, mentre un livello di trasduzione in termini appunto muscolari avviene a livello midollare, la gran parte del nostro sistema nervoso centrale si occupa di aspetti molto più astratti, cioè di tradurre queste informazioni che provengono dalle nostre intenzioni, emozioni, etc., in termini di azioni finalizzate.

Se pensiamo allo schema generale classico abbiamo la corteccia e sotto il tronco dell’encefalo e sotto ancora il midollo spinale. La fisiologia che avremmo potuto ipotizzare inizialmente, prevede solo una via che collega direttamente la corteccia con il midollo spinale, per cui dalla corteccia cerebrale le informazioni scendono e guidano i motoneuroni che poi vanno sui muscoli. In realtà, la maggior parte delle vie non va dalla corteccia ai motoneuroni midollari ma passa attraverso il tronco spinale e comunque quasi tutte le vie che vanno verso il midollo spinale non terminano direttamente sui motoneuroni ma nella porzione intermedia del midollo spinale, dove sono presenti degli interneuroni, cioè neuroni che mettono d’accordo altri neuroni.  Se la mia compagna mi dice “vai a fare la spesa”, non ha bisogno di dirmi “muovi il piede destro, mettilo avanti, appoggiaci il peso, muovi il sinistro…” , quindi non deve specificarmi tutti i dettagli, basta che mi dica “esci, vai e compra le carote”. Allo stesso modo, anche il cervello, la corteccia cerebrale, non deve dire tutte le specifiche che servono ai muscoli per tradurre in termini di azione, perché c’è già il midollo spinale che lo fa, per cui il cervello si può permettere solamente di dire “prendi”, “raggiungi”, “muovi il passo”, etc., poi sarà il midollo spinale a mettere d’accordo i diversi gruppi di motoneuroni permettendo per esempio la contrazione dei muscoli estensori e il rilassamento dei flessori per farmi estendere la gamba, per poi eseguire la strategia opposta, quindi contrarre i flessori e rilassare gli estensori, per fare il passo.

 

Quindi già il midollo spinale di per se’ mette d’accordo i motoneuroni tra di loro permettendo attivazioni non solo di un singolo muscolo, ma di gruppi muscolari, la cui attivazione porta a un movimento vero : questo già ci dice che la corteccia cerebrale fa qualcosa di molto più raffinato, di livello superiore. Tra l’altro se andiamo a prendere l’unica via anatomica che dalla corteccia porta direttamente al midollo, cioè la via piramidale o cortico-spinale diretta, e ci aspettiamo che questa vada direttamente sui motoneuroni sbagliamo perché in effetti le terminazioni che scendono dalla corteccia verso il midollo vanno a colonizzare la quasi totalità del midollo spinale. Questo per lo meno nell’uomo e nei primati antropomorfi (come lo scimpanzé, il bonobo e l’orango…), mentre nella maggior parte degli altri animali non arrivano ai motoneuroni.  Solo nell’uomo quindi si sviluppa questa capacità di guidare con finezza i movimenti soprattutto distali delle dita. Questa via che noi avremmo potuto identificare come la via più importante per guidare il movimento e presente soltanto nell’uomo è invece marginale, e non lo dico solo sulla base di studi anatomici e funzionali, ma lo dico anche sulla base della clinica: se noi provochiamo una lesione alla via piramidale pura non otteniamo dei grossi deficit, solamente una lieve riduzione del tono muscolare, ma il controllo posturale è normale. L’unica cosa che si perde è la capacità di fare movimenti alternati segmentati delle dita, la parola sarà meno fluida, ma nella vita di tutti i giorni si può vivere benissimo. Quella che chiamiamo sindrome piramidale in clinica neurologica non è dovuta esclusivamente ad una lesione delle vie piramidali, ma ad una lesione più generale delle vie discendenti dalla corteccia.

 

Quello di cui voglio parlare oggi non è il midollo spinale ma la corteccia, per cui partirei con due principi organizzativi. Il riferimento comune prima di arrivare alla fisiologia vera e propria ci viene fornito dall’anatomia. Storicamente la corteccia premotoria, sia dell’uomo che della scimmia, è stata suddivisa sulla base di studi anatomici di cito architettonica, cioè studi su come sono disposte le cellule nelle varie cortecce, in due regioni fondamentali: l’area 4 o motoria primaria, posta al davanti del solco centrale, e l’area 6, posta rostralmente a questa. Suddivisione proposta da Brodmann nel 1909 che però non aveva un correlato funzionale, per cui diceva solo che ci sono tante aree diverse nel cervello. Però, già dall’antico Egitto, si sapeva che diverse parti della corteccia cerebrale svolgono funzioni diverse; allora, i primi studi veramente pionieristici sul cervello negli anni 50 con tecniche elettrofiosiologiche erano studi di stimolazione e in particolare Penfield, che era un neurochirurgo e lavorava sull’uomo, e Woolsey, che lavorava soprattutto su modelli animali, hanno iniziato a stimolare la corteccia cerebrale per vedere che effetti evocava. Sulla base della stimolazione davanti al solco centrale, nella zona che Brodmann identificava sia come area 4 che come area 6, c’è una rappresentazione completa dell’emicorpo controlaterale.

E’ evidente l’importanza della presenza di entrambi gli emisferi, perché altrimenti avremmo una percezione, una visione anche del nostro stesso corpo, molto parziale: il fatto di non poter muovere un emicorpo è un handicap piuttosto grave, non solo dal punto di vista fisico del movimento, ma anche dal punto di vista concettuale, di concettualizzazione dello spazio. Woolsey trovò che ci sono due regioni che, se stimolate, evocano movimenti del corpo; una più grande, posta sulla convessità dorsolaterale della corteccia, che chiama area motoria primaria e una più piccola, posta sulla corteccia mesiale, cioè tra i due emisferi. L’idea classica che abbiamo in mente è quella di informazioni sensoriali (tattili, propriocettive, pressorie, visive, uditive, etc…) che arrivano sulle nostre aree associative, dove la convergenza di queste informazioni permette l’emergere di contenuti mentali più astratti, come lo schema corporeo e la percezione dello spazio: in questa visione la corteccia motoria sarebbe esclusivamente un burocrate che passa i comandi della corteccia parietale verso i muscoli. Questo schema non è ritenuto più valido per una serie di evidenze e di dati di fatto specifici. In particolare sappiamo che l’area 4 e l’area 6, identificate da Brodmann, sono funzionalmente distinte, e l’area 6 è suddivisibile in numerose diverse sotto aree, per cui ci sono molte aree motorie distinte dal punto di vista sia anatomico che funzionale. Inoltre, ognuno di questi settori della corteccia motoria è in grado di aver un ruolo funzionalmente specifico in virtù delle proprie connessioni anatomiche.

 

Un grandissimo cibernetico, Edelman (è stato anche premio Nobel), che dall’immunologia  è passato alle neuroscienze, diceva: “probabilmente la cosa più interessante del cervello non è quello che fa, ma è come è fatto” e quindi studiare la sua struttura ci dice molto su come funziona. Dalla struttura, dalla morfologia, dall’anatomia, da come è cablato questo sistema di circuiti elettrici, da questo emerge la funzione. Questo va di pari passo con quello che gli ultimi 30 anni di letteratura neuroanatomica ed elettrofisiologica ci dicono, cioè che la specializzazione funzionale delle varie aree neuroanatomiche è basato sulla selettività e sulla specificità delle connessioni che esse hanno.  Inoltre, la corteccia motoria non è solo implicata nell’esecuzione dei movimenti e cioè nella guida di questi effettori che sono i muscoli, ma è anche attivamente coinvolta nei processi di trasformazione senso-motoria. Se riprendiamo l’esempio iniziale di quando ci si arrampica in montagna, l’informazione sensoriale che proviene dalle mani viene trasformata in termini di un atto motorio adatto per quella presa. Questo è quello che voi, come osteopati, fate nella vita di tutti i giorni e cioè sentire attraverso la manipolazione e la palpazione quello che il corpo vi sta dicendo.  Però il sistema motorio è anche coinvolto in aspetti di tipo cognitivo. Il nostro modo di percepire e di codificare lo spazio che ci circonda, dipende fondamentalmente dalla nostra capacità di muoverci e, ancora, la nostra capacità di comprendere le azioni eseguite dagli altri (esseri sociali), dipende in gran parte dalla nostra capacità movimento, cioè noi capiamo  le azioni altrui perché fanno risuonare il nostro comportamento motorio.

 

Tornando al nostro background anatomico, io mio riferirò fondamentalmente a una descrizione architettonica che è stata prodotta alla fine degli anni ‘80 proprio qui a Parma, che prevede la divisione della corteccia motoria e premotoria del modello animale prevalentemente utilizzato per gli studi elettrofisiologici sul sistema motorio che è il macaco, in 7 aree denominate con la lettera F, perché sono nel lobo frontale, e con numeri arabi successivi da 1 a 7. Questa distinzione  basata su criteri cito architettonici  non è una cosa così astratta; come dicevamo prima, la struttura determina la funzione e, viceversa, la funzione fa uno shaping sulla struttura, per cui se noi andiamo ad investigare la funzione di queste aree, troviamo che ognuna di esse contiene una rappresentazione diversa dei movimenti, e non una rappresentazione unica come l’Homunculus che troviamo su tutti i libri. Per esempio, l’arto superiore è rappresentato nella motoria primaria nelle due aree premotorie ventrali F4 ed F5, nell’area premotoria dorsale F2 e nelle due aree mesiali F3 e F6. Di conseguenza su 7 aree corticali che sono state identificate abbiamo 6 diverse rappresentazioni della mano. Già  questo sfata l’idea che la corteccia guidi i muscoli: cosa me ne farei infatti di 7 rappresentazioni diverse che comandano lo stesso muscolo, andrebbero in conflitto, non sarei in grado di muovermi in maniera corretta nella migliore delle ipotesi e ci vorrebbe un centro integratore ulteriore che le mette d’accordo. Quindi questo vuol dire che ognuna di queste rappresentazioni partecipa ad un aspetto diverso del controllo delle azioni motorie. Ultimo aspetto anatomico prima di parlare della fisiologia vera e propria, è uno schema riassuntivo delle connessioni.

 

Le aree motorie non vivono come un’isola felice ed isolata nella nostra corteccia cerebrale ma sono fortemente connesse sia tra di loro, sia attraverso le vie discendenti con i sistemi effettori veri e propri ( midollo spinale e  tronco dell’encefalo ), sia con altre aree corticali (particolarmente forti sono le connessioni con il lobo parietale e con il lobo prefrontale).

 

Se cerchiamo di identificare, di distinguere le aree anatomiche della corteccia motoria sulla base delle loro connessioni, possiamo identificare 3 gruppi:

 

  • area motoria primaria, che ha la peculiarità di essere l’unica connessa direttamente con la lamina IX del midollo spinale, per cui con i motoneuroni. È l’unica che direttamente può andare a guidare i motoneuroni e  permetterci di isolare un singolo movimento.
  • aree posteriori, dette anche parieto-dipendenti perché sono fortemente connesse anatomicamente con la corteccia parietale, mentre hanno debolissime connessioni con la corteccia prefrontale. Queste comprendono la maggior parte delle aree motorie. Sono anch’esse connesse con il midollo spinale: mai, o quasi mai, con i motoneuroni α, ma prevalentemente con gli interneuroni, quelli che come dicevamo all’inizio, sono in grado di mettere d’accordo i motoneuroni e di conseguenza di dar vita a dei movimenti e non a singole contrazioni muscolari. Inoltre proiettano alla formazione reticolare.
  • due aree, che in realtà, di recente si sono arricchite di una terza area che è posta sul fondo del solco arcuato inferiore, che non hanno forti connessioni con la corteccia parietale ma hanno forti connessioni con la corteccia prefrontale.

Ora la domanda che oggi dobbiamo farci è: “quale è il contributo  relativo delle aree connesse con la corteccia parietale e di quelle connesse con la corteccia prefrontale? Come sono interconnesse tra di loro, come condividono i loro ruoli in modo da permetterci quella fluidità del movimento che il grande neurologo sovietico Lurija chiamava melodia cinetica?”. Le aree posteriori parieto-dipendenti ricevono informazioni sensoriali dalla corteccia parietale posteriore e la usano per generare degli atti motori potenziali, intendendo con questo termine la codifica dell’idea di quel movimento dotato di un fine: io ho un’idea ma attivare questi neuroni vuol dire anche eseguire quest’idea, per cui dare il via ai muscoli perché eseguano questo movimento. Poi abbiamo le aree pre-fronto dipendenti o aree anteriori che ricevono informazioni di alto ordine legate all’intenzione in un senso più astratto. Voi sapete che lesioni della corteccia prefrontale conducono a deficit come la disinibizione, il comportamento utilizzatorio (cioè l’agire su tutti gli oggetti anche se non abbiamo bisogno di interagire con essi), etc., per cui queste aree ci permetterebbero di dire il “se”, il “quando” e “in quali circostanze” attivare quei programmi motori oppure quando invece tenerli inibiti. Ora vi faccio un paio di esempi specifici. Uno è quello legato alle trasformazioni sensori-motorie, soprattutto visuo-motorie per afferrare gli oggetti e parleremo in particolare di un circuito che connette l’area parietale anteriore (AIP) con l’area premotoria frontale F5.

 

Vi presento uno studio molto vecchio, condotto anche questo a Parma da Rizzolatti & coll.: è un esperimento fatto su scimmie dove veniva semplicemente porto del cibo alla scimmia che poteva prenderlo e mangiarselo. Il cibo poteva venire dato vicino alla mano destra, alla mano sinistra o alla bocca e si andava a registrare, attraverso dei microelettrodi, l’attività elettrica dei neuroni della corteccia motoria, in particolare qui nell’area F5 della scimmia. L’istogramma ha rilevato che i  neuroni si attivano sia quando la scimmia afferra del cibo con la bocca, sia quando lo afferra con la mano destra, sia quando lo afferra con la mano sinistra. Ma se, in base all’interpretazione che vigeva a quei tempi, il neurone guida i muscoli, come fa lo stesso neurone a guidare i muscoli della bocca, della mano destra, della mano sinistra? Evidentemente questi neuroni non guidano il movimento ma codificano lo scopo del movimento che è una cosa molto più sottile. L’unico punto in comune che ha la scarica di questo neurone in queste tre condizioni è che la scimmia sta afferrando. Allora si è chiesto alla scimmia di fare altri atti motori con la mano, e si è visto che il neurone non si attiva, ulteriore dimostrazione questa  che non è la guida di quei gruppi muscolari ma che è la codifica di un atto motorio, dove con “atto motorio” intendo un movimento dotato di uno scopo, in questo caso afferrare, prendere possesso di un oggetto e poterne disporre nello spazio e nel tempo. Quindi a livello della corteccia premotoria, soprattutto della corteccia premotoria ventrale, abbiamo una rappresentazione degli scopi dell’azione. Però si potrebbe contestare: se stimolando quella regione corticale vedo che si muove la mano o al peggio si muove la mano e la bocca allora vuol dire che un’uscita verso i sistemi esecutivi ci deve essere. Come si fa ad essere sicuri che non sia invece la codifica di specifici aspetti del movimento?

 

Molti anni più tardi rispetto allo studio che vi ho presentato è stato proposto questo studio: gli Autori hanno addestrato delle scimmie a utilizzare una pinza di quelle da giaccio, per cui chiudendo le dita si chiude la pinza e una pinza da escargot, per cui l’azione è invertita, stringendo il pugno apro la pinza e rilasciando la mano la pinza si chiude. Hanno addestrato la scimmia ad afferrare del cibo e registravano nella corteccia premotaria nell’area F5. Il risultato è che il neurone si attiva sempre quando si raggiunge lo scopo e non quando si aprono o si chiudono le dita, cioè questo neurone si attiva quando io afferro, sia che l’afferramento avvenga in virtù di una flessione e di una chiusura della mano, sia che avvenga in virtù di un’apertura della mano, per cui di movimenti opposti. Questa è una dimostrazione secondo me piuttosto forte che quello che è codificato a livello dell’area premotoria F5 è la codifica dello scopo dell’azione.  Quest’azione, però, può essere fatta in maniere diverse, allora è possibile che tutta la codifica della mia corteccia sia così astratta? Per niente affatto. Ci sono una serie di neuroni che codificano lo stesso atto motorio in maniera diversa a seconda di come lo faccio. Per esempio, un neurone registrato nella stessa regione corticale, si attiva quando la scimmia afferra sia con la mano destra sia con la mano sinistra un pezzo piccolo di cibo, per cui utilizza una presa di precisione, con opposizione dell’estremità pulpare di indice e pollice, ma non si attiva quando esegue una presa di potenza, in cui si usa tutto il palmo della mano e si chiudono tutte le dita:  è vero quindi che questo neurone codifica lo scopo, ma lo scopo inteso come idea potenziale che viene posta in atto attraverso un movimento specifico, cioè la pinza di precisione.

 

E’ evidente quindi che ci sono neuroni molto astratti che dicono lo scopo, il prendere possesso, l’afferrare, e altri più “concreti” che dicono “prendi possesso utilizzando quel tipo di prensione e non quell’altro”. Ovviamente ci sono neuroni che codificano meglio la pinza di precisione, altri che codificano meglio la prensione di dita o la prensione di potenza, altri che codificano il “dig in out” (l’infilare un dito per tirare qualcosa)…. C’è un’intera serie di codifiche di tipo diverso e questo è stato concettualizzato dal gruppo di Giacomo Rizzolati in termini di vocabolario motorio, e cioè nella corteccia motoria vi sarebbe una specie di vocabolario di atti motori e ogni parola di questo vocabolario è costituita da un insieme di neuroni. Ci sarebbero dei neuroni che codificano per parole più astratte: “prendere”, “tirare”, “rompere”, “spingere”, altri che specificano più nei dettagli come eseguire, come raggiungere quello scopo: “prendi con una presa di precisione”, “prendi con una presa a tutta mano”…e altri ancora che dicono come segmentare nel tempo quel movimento, tipo “apri la mano per prendere con una pinza di precisione” etc.

 

Quindi attivare questa rappresentazione motoria equivale a essere in grado di guidare, sulla base di uno scopo di azione, il midollo spinale o le altre aree più esecutive che permettono l’effettuazione dei movimenti. Del resto noi sappiamo che questa regione corticale F5p (questo è uno studio anatomico condotto da noi negli ultimi anni) è connessa sia con la corteccia motoria primaria, sia con il midollo spinale, per cui è in grado di guidare l’area motoria primaria che poi informa il midollo, ma anche di informare il midollo direttamente. Questo è molto importante se noi pensiamo al recupero funzionale: quando si ha una lesione neurologica, si ha una perdita della funzione, ad esempio la perdita della capacità di afferrare con la pinza di precisione. Durante il recupero,  a distanza di circa tre settimane, inizia un forte recupero funzionale, cioè torna la capacità, nonostante la lesione, di afferrare gli oggetti. Successivamente si ha un nuovo décalage della prestazione e poi un nuovo reincremento. Perché questo andamento? Perché, se analizziamo la performance, all’inizio si tendono ad utilizzare delle altre strategie, cioè invece di prendere, come avevo imparato, con una pinza di precisione, cerco di compiere l’atto motorio in un modo o nell’altro. Questo è efficace perché mi permettere di afferrare l’oggetto, ma non ho ripristinato la funzione.

 

In realtà questo periodo di “disimparare” serve per applicarsi di più per cercare di riapprendere quello che già si sapeva fare, per cui si perde in performance per un breve periodo ma si investe sul futuro recuperando alla fine la capacità di svolgere il compito in maniera corretta. Come può avvenire questo se noi abbiamo danneggiato l’area motoria primaria? Può avvenire appunto tramite queste altre aree premotorie. Quindi avere 6 e anche più rappresentazioni corticali del movimento dello stesso effettore, ha un significato sia funzionale, che conservativo: lesa una non ho distrutto completamente la funzione, la posso vicariare. In particolare sempre in questo studio anatomico, abbiamo identificato che, questa regione premotoria ventrale F5, è connessa direttamente con la formazione reticolare mesencefalica e bulbare ed è anche connessa direttamente con il midollo spinale, ma non con il rigonfiamento cervicale del midollo spinale come noi ci saremmo aspettati, cioè con quella porzione dove sono contenuti i motoneuroni che guidano la mano, ma con una porzione molto più aspecifica, molto più astratta, che è posta nei primi segmenti cervicali e a livello dei quali è presente il cosiddetto sistema proprio-spinale. Il sistema proprio-spinale è un sistema di neuroni midollari che è in grado di andare a selezionare specificamente a diversi livelli midollari via via più bassi le azioni, per cui è in grado di guidare, di gestire la mano, per esempio, in maniera un pochettino più olistica.

 

Quindi quest’ipotesi basata sui nostri dati anatomici e sulle conoscenze fisiologiche, ci suggerisce che anche in caso di grandi lesioni della corteccia motoria primaria, le premotorie ventrali sono in grado di andare ad attivare il sistema proprio-spinale e, in ultima analisi, ci consentono comunque di eseguire il movimento anche a seguito della lesione. Marco Davare, dell’University college di Londra, ha fatto  un esperimento sull’uomo interessante anche dal punto di vista clinico, usando la tecnica della stimolazione transcranica magnetica: si mette un magnete che attivandosi, per la legge di Lorenz, induce una corrente elettrica e stimola la corteccia cerebrale, per cui stimolando questa regione si possono evocare dei movimenti in maniera del tutto non invasiva nell’uomo (io ho fatto da soggetto più di una volta). Però c’è una cosa ancora più fine, si può dare una frequenza di stimolo, che invece di attivare la popolazione dei neuroni, attiva solo la popolazione degli interneuroni in modo da provocare una lesione virtuale, che dura circa un minuto, un minuto e mezzo. In pratica si mantiene tutta la popolazione dei neuroni inibitori attivi, per cui è come se quest’area fosse distrutta. Facendo questo tipo di esperimento su soggetti normali si determina un impairment, si modifica la capacità di afferrare gli oggetti e i sintomi che tipicamente emergono sono goffaggine nel movimento, incapacità di raggiungere su base visiva l’oggetto (nel senso di trasformarlo in atti motori appropriati per afferrarlo), ma una volta che ci si arriva con il tatto  si risolve tutto.  Questo ci dice qualcosa di più: forse questa regione è implicata anche nelle trasformazioni visuo-motorie, cioè vedo un oggetto e lo trasformo in atti motori appropriati per afferrarlo. Del resto noi sappiamo che quando lanciamo la mano per prendere un oggetto, se l’oggetto è grande apriamo di più la mano, se l’oggetto è piccolo la apriamo di meno, anche se non lo vediamo ma sappiamo che l’oggetto è grande o piccolo e questo avviene molto prima di essere effettivamente vicini all’oggetto, già quando si muove il braccio.

 

La cosa interessante, però, è che l’attività neuronale non è allineata con il momento di afferramento, ma è allineata nel momento in cui si osserva l’oggetto, per cui basta la visione di quell’oggetto per determinare un’attivazione del neurone, quindi anche se io non vado a eseguire l’atto motorio, vedere quell’oggetto attiva la mia rappresentazione motoria interna cerebrale di come si afferra. Vedere un oggetto già mi dice “lo devi prendere così”, perché quell’oggetto ha certe proprietà, non perché io astrattamente lo dipingo così, ma perché si prende così. È una descrizione molto pragmatica di quello che noi sappiamo fare e di conseguenza percepire. Questa corteccia premotoria però non ha connessioni anatomiche dirette con le aree visive della corteccia occipitale, eppure da qualche parte l’informazione visiva deve arrivare. Allora di nuovo studi anatomici dimostrano che questo specifico settore della corteccia premotoria è connesso con l’area intra parietale anteriore AIP : ci sono anche nella corteccia parietale dei neuroni che codificano specificatamente un oggetto sia quando lo si osserva che quando lo si prende.

 

Questo ci dice due cose: la prima è che il sistema motorio non risiede solamente più esclusivamente nella corteccia motoria, ma si espande a colonizzare la corteccia parietale, e questo è una rivoluzione. La seconda è che queste aree molto distanti tra di loro, AIP parietale e F5 premotoria ventrale, sono non solo connesse anatomicamente ma svolgono un ruolo funzionale sinergico, per cui probabilmente non è una singola area che fa il compito, ma è l’integrazione.

 

Finora abbiamo visto che il midollo guida i muscoli, mette insieme i diversi muscoli, per fare dei movimenti fluidi, la corteccia dice lo scopo dell’atto motorio (prendere, rompere, spingere, afferrare, ecc…) però quando noi ci muoviamo facciamo una sequenza di azioni. La domanda che ci siamo posti è: quali sono le regioni di questo sistema motorio che specificatamente contribuiscono a dare un’intenzione a questi scopi motori?  All’inizio pensavamo che un buon candidato poteva essere la corteccia parietale posteriore, allora abbiamo fatto insieme a Grassi, Bonini, Gregorini e altri, una serie di esperimenti iniziati nel 2005 che ci hanno però portato alla conclusione che  non basta il circuito parietale premotorio per spiegarci l’intenzione, serve qualcos’altro. Allora ci siamo spinti, e qui arrivo al giorno d’oggi, a fare un’altra serie di ipotesi.

 

Per mettere in gioco un’azione intenzionale (io lo sto dicendo molto in astratto ma credo che nella vostra testa ci sia: “quando manipolo un arto, quando tasto una pancia, la mia intenzione è di capire cosa sta succedendo in quel corpo, per cui ho un’intenzione e l’intenzione che io ho modula la mia capacità di agire”) ho bisogno di due meccanismi:

  • uno che permette le trasformazioni visuo motorie. Lo abbiamo già visto prima, cioè i circuiti parieto-premotori sono in grado di trasformare le informazioni tattili, pressorie, visive, in termini di atti motori appropriati e non solo, ma sono già in grado di codificare lo scopo semplice degli atti.
  • Il secondo che, basandosi sullo scopo finale a lungo termine della mia azione e cioè lo scopo comportamentale, sia in grado di selezionare e di attivare in catena gli atti motori necessari, che sia in grado di andare a mettere insieme il contenuto di questi circuiti parieto-premotori per farmi fare l’intera strategia dell’azione.

 

Chi è il miglior candidato per questo scopo di selezione e controllo dell’azione? Sicuramente la corteccia prefrontale. Vi posso citare una tonnellata di letteratura che dice che questa corteccia prefrontale fa una serie di compiti astratti, però nessuno si è mai preso la briga di vedere se c’erano neuroni motori. Noi lo abbiamo fatto e i risultati anatomici  ci dicono che anche la corteccia prefrontale non è omogenea ma c’è un settore ben preciso posto al centro della corteccia prefrontale, che è l’unico connesso con i nodi della corteccia parietale premotoria, che sono parte del network necessario per l’afferramento, cioè la premotoria frontale F5, l’area AIP, l’area PFG, tutte aree di cui vi ho parlato prima. L’ipotesi teorica è che quest’area potrebbe essere parte del circuito di afferramento per guidarlo in maniera intenzionale. Vista la base anatomica assieme a Simoni e Grassi ci siamo messi a registrare neuroni in questa porzione della corteccia prefrontale.

Il  dato nuovo è che abbiamo trovato che anche nella corteccia prefrontale ci sono dei neuroni, che non abbiamo chiamato “motori” ma “Movement Related”, cioè neuroni che si attivano durante l’esecuzione del movimento. Molti di questi neuroni non risentono delle condizioni del contorno, per cui se io afferro in visione, se afferro al buio, se afferro sapendo che oggetto c’era su base mnemonica, se afferro basandomi sul tatto, continuano a rispondere. Non solo, ma quelli che sono modulati anche sull’osservazione dell’azione non sono specifici come quelli dei circuiti parieto-premotori, per cui questi neuroni non fanno parte del sistema che mi permette di fare le trasformazioni sensori motorie. Allora abbiamo fatto l’ipotesi che i neuroni “Movement related” della corteccia prefrontale codifichino lo scopo del movimento, dell’atto motorio e dell’azione in maniera anche parzialmente indipendente dalle regole astratte.

 

Quindi abbiamo trovato che la corteccia motoria non è l’unico esecutore, ma c’è anche la corteccia parietale; che la corteccia parietale e premotoria formano una serie di circuiti che ci permettono di trasformare le caratteristiche degli oggetti per afferrarli, ma che questo non è sufficiente per permettere di creare nuove strategie motorie né di guidare su base intenzionale le nostre azioni. Probabilmente il sistema motorio va esteso ulteriormente e ci sono delle altre regioni della corteccia prefrontale, non sto dicendo che sono motorie, ma solo che partecipano al network dell’afferramento in maniera molto più globale, che sono connesse anatomicamente e che hanno delle proprietà funzionali correlate. Tra le  ipotesi in particolare c’è  che i neuroni parietali premotori potrebbero mandare alla prefrontale informazioni sullo scopo dei singoli atti motori, informazioni necessarie per implementare azioni sequenziali e raggiungere lo scopo comportamentale, cioè potrebbero servire per selezionare gli atti motori codificati dal parietale e dalla premotoria, necessari per arrivare a uno scopo finale.

 

Però c’è anche l’altra direzione: la parietale e la premotoria potrebbero mandare alla corteccia prefrontale i mattoncini di base, cioè le rappresentazioni astratte di “questo è afferrare”, “questo è spingere”, “questo è tirare” e la corteccia prefrontale potrebbe utilizzarle ricombinandole per creare delle nuove strategie motorie, per cui questa connessione con la corteccia prefrontale potrebbe avere una duplice importanza: da una parte di guida, di controllo, di mantenere attiva la rappresentazione dello scopo finale che voglio raggiungere e permettere il dipanarsi e lo svolgersi dell’azione e dall’altra di ricevere informazioni su che cosa significano i singoli atti motori potenziali che possiamo utilizzare per ricombinarli e creare nuove strategie motorie.

 

Domande

D.: “Prima hai parlato di visualizzare l’atto motorio quando vedi l’oggetto da afferrare, ecc…; questa attivazione avviene anche nel momento in cui io visualizzo che cosa c’è al di sotto della mia mano e che cosa voglio raggiungere? Per esempio io visualizzo che sotto c’è un fegato che ha una certa struttura e mi immagino una certa consistenza però non lo vedo, lo immagino solo perché so che esiste, so com’è fatto. Nel momento in cui pongo la mano ho o posso avere lo stesso comportamento?”

R.: “Non te lo so dire perché è molto difficile da testare sperimentalmente una cosa del genere. La mia impressione è: probabilmente sì. Se io senza eseguire nessun movimento chiudo gli occhi e immagino il movimento, e sono stati fatti esperimenti a riguardo, si attivano le regioni che guidano il movimento, per cui basta il mental imagery per permettere l’attivazione di queste regioni. È anche vero che quando io afferro un oggetto, prima ancora che lo afferri, ho un’attivazione delle aree, anche delle aree visive. Ho saltato un dato, in quegli studi anatomici che ho mostrato velocemente sulle connessioni dell’area AIP, quello fatto con Elena Borra nel 2008: abbiamo notato che questa regione che partecipa al network del grasping è connessa con la corteccia premotoria, però il grosso delle connessioni vengono dalla corteccia temporale. Se si va a registrare in quella corteccia temporale si trova che ci sono delle rappresentazioni in chiave visiva, perché è una corteccia visiva, di quello stesso oggetto. La cosa più interessante, che non aveva ancora descritto nessuno, è che queste stesse regioni, visiva e associativa (io la chiamerei quasi motoria parietale), sono anche connesse con la somatica secondaria, per cui nessuno lo ha mai guardato ma probabilmente si attiva anche la rappresentazione tattile di quell’oggetto sulla mia mano. Quindi il mio schema motorio riesce ad attivare la rappresentazione visiva e quella tattile, per cui secondo me, ma bisognerebbe fare un esperimento ad hoc, palpare una pancia e sentire un fegato potrebbe essere in grado non solo di attivare la rappresentazione visiva e tattile, ma probabilmente è in grado di avere accesso all’informazione cognitiva astratta su quel fegato”.

 

D.: “Praticamente hai già affrontato due delle tre cose che vengono insegnate alla base della palpazione osteopatica: intenzione e attenzione visiva, visualizzazione. Un terzo aspetto è questo: ci insegnano che abbiamo due tipi di palpazione; una sensoriale, che è quella che hai descritto prima del caldo e del freddo, e una che viene definita da noi propriocettiva, che si effettua attraverso una contrazione isometrica dei flessori. Hai qualche considerazione particolare rispetto a questo concetto?”

R.: “Prima un’osservazione:  hai parlato di attenzione che io però non chiamerei attenzione visiva ma attenzione motoria. Ci sono delle teorie che a me piacciono molto, che ipotizzano che fare attenzione a una cosa sia attivare il mio repertorio motorio verso quello. Si parla di attenzione visiva perché noi esploriamo molto con gli occhi, per cui guido i movimenti saccadici di esplorazione, ma lo stesso avviene con la mano. Io ho fatto pochissima clinica, ma mi ricordo che quando palpavo una pancia guardavo nel vuoto, toglievo l’informazione visiva, per me era istintivo, non so se è corretto, non sono un buon clinico. La chiamerei attenzione più in generale. Sicuramente quello a cui io mi riferivo non è la palpazione tattile caldo–freddo, che è importantissima perché mi dice molto del microcircolo e dello stato di salute generale, ma era proprio quella pressoria, propriocettiva. La contrazione isometrica è, secondo me, il modo migliore perché non solo è la più faticosa, per cui mi richiede una maggior attenzione all’atto e di avere un’intenzione più acuta, ma è anche quella che mi permette un maggior controllo, perché facendo la contrazione isometrica attivo le vie discendenti non solo sui motoneuroni α, ma anche sui γ, aumento tramite i fusi muscolari la stiffness, la rigidità del muscolo e  di conseguenza ho un maggiore feedback e rendo più acuta la mia sensibilità tattile; così, da fisiologo e naif della palpazione, credo che sia molto meglio piuttosto che fare dei jerk, dei movimenti molto veloci, tenere la mano più contratta in isometria, sicuramente”.

 

D.: “Ieri un relatore, parlando della gestione dello stress, ci diceva che sotto stress la corteccia prefrontale si inattiva togliendo praticamente l’inibizione dell’amigdala, delle strutture più basse. È la stessa corteccia di cui tu oggi ci hai parlato, visto che entrambi la chiamate prefrontale? Mi chiedevo se vi riferite alla stessa cosa, cioè se anche tutta questa interpretazione che state dando sull’intenzione del movimento sotto stress si modifica”.

R.: “Scorrono fiumi sulla corteccia prefrontale, nel senso che tutti la chiamano corteccia prefrontale e nell’uomo è una gran parte della nostra corteccia. Nella maggior parte degli esperimenti si assegna un compito molto astratto e si trova che c’è attività ovunque nella corteccia prefrontale, perché l’ipotesi che non faccio io ma che ha fatto John Duncan, è che ci siano dei neuroni molto plastici, per cui più alzo il livello cognitivo della richiesta, più ho bisogno di reclutare tanti neuroni che di per sè farebbero dell’altro. Questa è la ragione per cui abbiamo usato un compito molto semplice. Nonostante questo ci sono 3 grossi gruppi riconosciuti all’interno della corteccia prefrontale: la dorso laterale che è quella di cui parlavo oggi, la mesiale  e l’orbitale. Quella collegata con l’amigdala, è prevalentemente quella orbito frontale, posta al di sotto, e in parte anche di quella mesiale, che fa parte del lobo limbico, che in effetti hanno una grande importanza nella modulazione delle emozioni, perché parliamo di stress dal punto di vista fisiologico, per cui come attivatore dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Quindi quelle più coinvolte sono la orbitale e la mesiale, non quella dorso laterale di cui sto parlando. Però è verissimo che lo stress riduce la quantità di recettori per alcuni neurotrasmettitori anche in questa area. Quest’idea frenologica di separare e dire: il prefrontale orbitale fa questo, la premotoria fa quello, io la trovo un po’ sorpassata, non perché faccio dell’olismo la mia bandiera, ma perché non credo minimamente che i nostri concetti a priori debbano fuorviare la nostra ricerca. Quindi, visto che i dati sperimentali che saltano fuori ci dicono che numerose aree sono connesse tra di loro, non possiamo più pensare che un’area ha una sola funzione, ma dobbiamo pensare che un’area svolga il suo ruolo in una particolare funzione. Più alziamo il tiro, più andiamo in aree che hanno numerose connessioni, più queste saranno coinvolte in tanti network, di conseguenza l’uno sarà in grado di influenzare l’altro. Non sto dicendo che tutti fanno tutto, lungi da me dire una cosa del genere, però che l’aspetto emozionale sia fortemente in grado di influenzare il nostro aspetto intenzionale e viceversa è sacrosanto”.

 

D.: “Nelle teorie di tipo biodinamico, la palpazione viene eseguita con quella che si chiama mano afferente, mano trasparente, mentre la palpazione propriocettiva, con l’intenzione, è di tutt’altro tipo  e viene proprio discriminata. Visto che hai detto che nell’attività motoria intenzionale c’è una grossa attivazione sensoriale, nell’altro tipo di palpazione, che crea quasi delle categorie tra gli osteopati, cosa può succedere? Quando l’operatore cerca di estraniarsi completamente da un contesto di condizionamento per aver la mano più trasparente possibile, che cosa attiva”?

R.: “Non sono sicuro che le due tecniche siano diverse, cioè secondo me dipende dall’intenzione di chi le utilizza. Quelle che la filosofia fenomenologica chiamava “arrivare all’epochè fenomenica”: Husserl diceva che “se voglio vedere un concetto io mi estraneo dal concetto e questo improvvisamente mi apparirà”. Questo è anche un concetto che ha guidato tutta la mia modalità di fare fisiologia, e non solo la mia ma anche quella della scuola di cui provengo, che è quella di Parma. Ripeto, non sono convinto che le due cose siano in contrasto. Io posso da un certo punto di vista lasciare andare la mano e aspettare che l’informazione mi arrivi, però comunque io sto guidando la mano. Nel mio passato ho fatto arti marziali: quando io pratico una stessa tecnica ripetutamente alla fine non ho più bisogno di pensarla, va in automatico, e mi posso concentrare su altre cose, fare attenzione alla gestione del corpo. Secondo me la tecnica più afferente richiede una gran esperienza, che uno però si fa guidando la mano. Io non sono convinto che le due cose siano molto diverse. Se io ho l’intenzione di estrarre l’informazione lo posso fare o concentrandomi molto e rimuovendo il resto (è quasi Zen come cosa), oppure cercando di estraniarmi, perché comunque lo sto facendo, lo so fare, l’ho fatto da una vita, e cerco di evitare che le situazioni del contorno mi coinvolgano e vadano a fuorviare la mia decisione. In entrambi i modi potrebbe essere che si arrivi allo stesso risultato. Però sono ignorante, non conosco le tecniche palpatorie, sto parlando da esterno a cui viene fatta una domanda ma non so esattamente di cosa stiamo parlando”.

 

D.: “Se ho capito bene si diventa sottocorticali passando per il corticale”.

R.: “Bravo, l’ha detto molto meglio di me”!

 

D.: “Il numero di esperienze fatte per prendere l’oggetto nella scimmia, cambia anche l’attivazione di determinate aree? nel senso che  anche la scimmia nella vita intrauterina prende qualcosa, quindi anche lì sta già facendo esperienza”.

R.: “Se parliamo di queste azioni che sono naturali, connaturate alla nostra esistenza, chiaramente noi abbiamo un’esperienza che forma il nostro cervello perché viene da sempre, però qui parliamo di una cosa diversa: la palpazione come atto tecnico in un certo senso la si apprende. Mentre apprendo si attiva tantissimo il prefrontale e molto meno il resto; quando io l’ho appreso, il prefrontale quasi smette di scaricare e si attivano le aree motorie. Nel momento in cui io cambio il set sperimentale, torna ad attivarsi fortemente il prefrontale, per cui non serve una expertise così alta per saper fare un atto motorio, serve per estrarre delle informazione da quello che stiamo facendo, serve per dominare la tecnica in maniera propria”.

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