Palpazione osteopatica:

discriminazione tra forma e funzione

a cura di Franco Guolo DO – scarica l’articolo in formato pdf

 

Normalmente, quando si parla di forma e funzione in ambito osteopatico, vengono presentati i 5 modelli che spiegano il tipo di approccio dell’osteopata, sia dal punto di vista diagnostico che terapeutico.  Il primo è quello biomeccanico e comprende il concetto delle fasce e il più recente concetto di tensegrità, quindi l’aspetto puramente meccanico di risposta elastica e di resistenza dei tessuti connettivi. Il secondo modello è quello circolatorio-respiratorio, e quindi parliamo della legge dell’arteria di Still, che è alla base della ricerca di una buona circolazione a livello tissutale per il mantenimento e recupero dell’attività siametabolica che catabolica: le recenti scoperte del circolo linfatico anche a livello cerebrale e della rete ortosimpatica vascolare avvalorano l’importanza di questo modello.

Il modello neurologico parte da Irvin Korr, da Deslow e dai fisiologi successivi che hanno individuato tutti i meccanismi di facilitazione spinale propriocettiva e il ruolo dell’ortosimpatico.                                    Un altro modello importante è il bio-psico-sociale che tiene conto delle influenze di tipo stressogeno che vengono dall’esterno, in particolare quelle di tipo ambientale e relazionale (la PNEI è la branca più interessante che si occupa di questi aspetti, collegandoli peraltro al modello neurologico).

E infine, ma non ultimo per importanza, il modello che è stato inserito più recentemente, è quello bioenergetico nel quale si parla effettivamente dell’energiae delle sue modificazioni come spiegazione della disfunzione osteopatica e che tiene conto di tutta la bilancia energetica del corpo, dalla produzione, all’utilizzo e alla distribuzione. Questo approccio ci avvicina ad altre medicine globali  che hanno come principio il concetto  di unità del corpo.

Questi sono i modelli che tutti conosciamo: oggi però non voglio parlare di questo ma cercherò di introdurre alcune considerazioni sulla messa in pratica di questi modelli  sia da parte dell’osteopatache da tutti coloro che si occupano di terapia manuale.

Parlerò delle sensazioni palpatorie che noi osteopati rileviamo, che ci sono state insegnate e che a nostra volta tramandiamo, e che abbiamo visto ripetersi frequentemente maalle quali vengono date spesso risposte non esaustive ed è proprio questo che mi spinge a cercare spiegazioni.

 

Parto dal pensiero di Rollin Becker che in realtà è il primo e forse l’unico dei nostri maestri del passato che in qualche maniera ha standardizzato i ragionamenti, i meccanismi e gli approcci di tipo palpatorio, fornendo delle regole ben precise nell’ambito della palpazione proprio nel rispetto dei rapporti tra struttura /funzione e funzione/struttura, cercando di darne un’interpretazione di tipo anatomo-fisio-patologico.

La nostra valutazione del paziente parte normalmente con un’indagine anamnestica che deve tenere in considerazione tra i vari fattori anche gli aspetti ereditari, genetici ed epigenetici. Ma come possiamo indagare in questo settore? Più che con le domande, dal mio punto di vista, il segreto è cominciare l’anamnesi con l’osservazione. Ascoltare come la persona parla, guardare come si relaziona con noi, come si muove, può dare degli input sul suo stato sia dal punto di vista strutturale (ad esempio la forma del viso), ma anche dal punto di vista funzionale (come agisce, come funziona, o che messaggi dà il suo sistema neurovegetativo). Il fatto di ricostruire gli eventi della sua vita e quindi il suo stato di salute/malattia nel tempo, dà un ottimo feed-back sulle sue capacità funzionaliche possiamo mettere in relazione a quello che osserviamo dal punto di vista strutturale, sia visivamente durante l’anamnesi, sia poi successivamente durante l’esame manuale.

Continuando nel rapporto struttura/funzione, un’altra considerazione che mi è venuta in mente e che vorrei trasmettervi è che durante lo sviluppo dell’individuo sicuramente il tratto fondamentale è la struttura che inevitabilmente condiziona a sua volta lo sviluppo della funzione. Quindi potremmo dire che durante lo sviluppo questi due meccanismi funzionano abbastanza insieme con uno sbilanciamento più verso la struttura. Una volta terminato lo sviluppo, è mia opinione che la bilancia si sposti decisamente verso l’aspetto funzionale; infatti sarà il nostro modo di funzionare che determinerà eventuali cambiamenti nella struttura. Ovviamente rimane sempre fondamentale la struttura iniziale che dà delle predisposizioni assolutamente non variabili, a meno che non intervengano degli effetti devastanti di tipo traumatico nel sistema.

Quindi come interviene l’osteopata su tutto questo? Interviene valutando l’aspetto strutturale e cercando attraverso questo di leggere il sistema di funzionamento interno del corpo: non a caso tutto è cominciato dallo studio della forma. La prima immagine che ci è stata data di Still quando abbiamo cominciato il corso di studi è appunto Still che osserva un femore che tiene tra le mani o  di lui con uno dei suoi allievi che studia la forma di una colonna vertebrale. E ancora ci è stato insegnato che Sutherland, colpito dalla forma particolare dell’osso temporale, abbia iniziato uno studio sistematico dell’osteopatia craniale. Per terminare ovviamente con John Martin Littlejohn, che per primo introdusse il concetto di funzione legata alla forma, completando e amplificando in maniera netta i concetti di Still.  Da qui siamo partiti e abbiamo cominciato a ragionare che in base alla strutturadel nostro cranio siamo predisposti a determinate problematiche. Ad esempio un soggetto con un temporale più in rotazione interna, quindi un orecchio più accollato rispetto all’altro, ci fa  pensare che dal punto di vista della predisposizione, se mai dovesse avere dei problemi all’orecchio, questi sarebbero con maggior probabilità dal lato della rotazione interna piuttosto che dall’altro lato. Così come un viso appiattito con iposviluppo dello splancnocranio è più facile che possa predisporre a problemi ad esempio delle vie aeree alte. Oppure la forma della colonna vertebrale ci darà degli input sull’assetto posturale e di conseguenza sulla predisposizione a determinati tipi di patologia. Questo è ciò che intendevo prima quando dicevo che la nostra osservazione dovrebbe cominciare mentre facciamo entrare il paziente nel nostro studio o mentre stiamo chiacchierando con lui.

Dal punto di vista della palpazione Rollin Becker (Dr.R.E.Becker The Stillness of Life pag 173 – Edited by R.E.Brooks,M.D., 2001) ha classificato invece delle vere e proprie tipologie di percezione. Un primo livello di percezione sensoriale dà informazioni sia sulla forma che sulla funzione e poi tre aspetti rivolti specificatamente alla funzione che lui ha definito: percezione propriocettivapercezione sensomotoria e percezione quantica.

La percezione sensoriale significa letteralmente utilizzo degli organi di senso. Abbiamo già accennato all’aspetto visivo. Anche gli altri organi di senso possono essere un’importante chiave di lettura per lo studio dellafunzione; sicuramente l’odorato è uno dei sensi più ancestrali dal punto di vista della relazione con l’ambiente esterno. L’udito ci dà delle informazioni importanti come ad esempio il tono di voce della persona ( più orto o parasimpatico ), così come la battuta dei piedi nel cammino ci può dare  tante informazioni di tipo posturale e  funzionale. Il gustoera uno strumento utilizzato dalla vecchia medicina, ma non più nell’era della  strumentazione odierna . Infine l’aspetto tattile che prenderemo in esame in maniera più approfondita. Quella che Becker definisce percezione sensoriale tattile si attiva con un contatto superficiale e richiede la presa di coscienza di com’è fatta una struttura. Un contatto superficiale significa letteralmente utilizzare la capacità recettiva superficiale della mano dato che la sua cute è densamente innervata, contenendo da 15.000 a 20.000 meccanocettori. La densità dei recettori più superficiali è di circa 100/cm² sulla punta delle dita, tre o quattro volte più bassa sul palmo della manoe quasi dieci volte più bassa sulla cute della spalla. Questo ci suggerisce di focalizzare la nostra attenzione, e sottolineo questo termine perché dopo lo metteremo in campo, su quella parte della mano in questo tipo di atto palpatorio.

 

Al contrario, nella percezione propriocettiva, che accedead un livello più funzionale  e si attua attraverso una contrazione isometrica dei  flessori lunghi di pollice e dita, si cerca di creare un contatto comunque superficiale, ma che diventa automaticamente più profondo. Per poter fare ciò si sfrutta l’azione dinamica stabilizzante di tutto l’arto superiore sia che la palpazione sia di tipo unilaterale che bilaterale. Sembra proprio, e lo sostiene la fisiologia, che la sensibilità tattile della mano sia più sviluppata nel momento in cui l’arto intero ha una funzione attiva. Questo starebbe a significare che effettivamente la messa in campo della contrazione isometrica di tutto l’arto superiore svincolerebbe la mano da altri compiti permettendole di agire diciamo in maniera più definita, rispetto a quello che ci si propone di registrare, cioè una sensazione dinamica. Consultando i testi di fisiologia, mi sono reso conto che tutto questo porta a considerare le funzioni dei propriocettori profondi, ed ecco perché probabilmente Becker la definì palpazione di tipo propriocettivo.La sensibilità propriocettiva permette di determinare le variazioni di stato (dinamiche) specie tramite i corpuscoli di Pacini, Ruffini e Golgi (Fusco,Comun. Congr. ISICO, Cattolica 2009). Inoltre si è visto che i corpuscoli del Pacini sembrano essere legati, anche secondo alcuni studi fatti da Stecco e Coll., alla sensazione del tocco leggero (Stecco C. end oth.; Anatomy of the deep fascia of the upperlimb. Second part: study of innervation;  Morphologie 2007 Mar;91(292):38-43), cioè del tocco che viene insegnato in osteopatia per la registrazione del movimento presente. Un’altra considerazione interessante nello studio della fisiologia dei recettori è che utilizzando i recettori superficiali si ottiene una sensazione molto più localizzata mentre, nel momento in cui andiamo su una palpazione diciamo più profonda, la ricezione risulta decisamente più allargata e comincia a distribuirsi anche al resto della mano, quindi  si passa da un’attenzione di tipo digitale a un’attenzione più generale della mano.

Fatte queste registrazioni risulta necessario integrare i dati, ed è qui che R. Becker parla di percezione sensomotoria.  Questa prevede una elaborazione corticale della percezione manuale e sembra che  i cervelli degli osteopati esperti subiscano in questa situazione cambiamenti strutturali e funzionali che condurrebbero ad una maggiore efficienza nel processo d’integrazione multisensoriale (Jorge E. Esteves et Al., Developingcompetence in diagnosticpalpation: Perspectives from neuroscience and education. International Journal of Osteopathic Medicine (2014) 17: 52-60). Infine nel 1966 Rollin Becker firmò un articolo sull’American Journal in cui, per la prima volta, utilizzò il termine di “ascolto”, tralsando così una funzione sensoriale di tipo uditivo in una palpatoria e definendolo livello quantico (R.E. Becker, Palpation, JAOA 196).Egli stesso commenta questa sua affermazione sostenendo “…io non posso spiegare questo meccanismo, però è un fatto che questo meccanismo mi permette di ottenere un maggior numero di informazioni, molto maggiore rispetto a tutti gli altri tre livelli combinati”.

Il termine “quantico”, il cui utilizzo non mi risulta Becker abbia mai spiegato chiaramente, mi ha fatto pensare al fatto che nella fisica quantistica rispetto alla fisica meccanica si passa dallo studio del macroscopico al microscopico, che  effettivamente è quello che ci hanno insegnato a valutare in osteopatia, il cosiddetto micromovimento. Il micromovimento che caratterizza in maniera specifica il concetto osteopatico è quella componente del movimento presente identificabile nel movimento ciclico definito Movimento Respiratorio Primario. Le ultime teorie portano all’ipotesi che il Movimento Respiratorio Primario sia una risultante legata a tutti i processi biologici del corpo, e cioè alla respirazione toracica, al ritmo cardiovascolare, alla somma dei vari processi biologici e probabilmente anchedi aspetti vibrazionali.  Come sosteneva Becker non sappiamo cosa sia, ma sta di fatto che l’osteopata questo movimento lo registra, impara a gestirlo, può insegnarlo.  Un recente studio sul micromovimento e sull’uso dello stimolo lieve (introdotto prima da Sutherland e sostenuto poi da Becker) in rapporto agli approcci fisici nelle terapie manuali mette appunto in relazione la presenza di questo movimento, l’utilizzo della palpazione lieve ed il concetto quantistico (M.Tosi, E.Del Giudice; Il principio del minimo stimolo nella dinamica dell’organismo vivente; Psicol.Olist., ott.2011).

R. E. Becker nell’insegnamento di questo tipo di pratica diagnostica e terapeutica, introdusse i concetti di attenzione e intenzione. Ci è stato insegnato e a nostra volta insegniamo e diciamo ai nostri pazienti, che mettendo una mano sulla superficie dell’addome siamo in grado di valutare i tessuti cutanei, i muscoli, il fegato, l’intestino, i reni, fino addirittura al pancreas. Un grande problema dell’osteopatia è che ciò di cui noi operatori abbiamo una prova clinica quotidiana è in realtà difficile da spiegare ed ha scarse validazioni scientifiche. Personalmente mi sono detto che la cosiddetta capacitàattentiva, cioè l’attenzione differente dal punto di vista nervoso e  mentale,  è in grado di orientare diversamente il mio approccio, e quindi di ricevere delle informazioni stratigraficamente diverse dal corpo della persona. D’altra parte nel momento in cui divento operativo passo ad un livello intentivo, e cioè se io pongo l’attenzione su una struttura particolare, in qualche maniera metto in atto “un’intenzione curativa”, se così si può definire, e induco degli stimoli al corpo; a questo proposito sono numerosi i lavori  sulle influenze che la coscienza umana, dal pensiero fino a un’intenzione vera e propria, portano nel cambiamento dello stato molecolare dell’acqua (Pyatnitsky L.N., Fonkin V. A., “Human consciousnessinfluence on water structure”, Journal of Scientific Exploration, 1995, n. 9, vol. 1, pp. 89-105); (Montagnier L., Aissa J., Del Giudice E., Lavallee C., et al., “DNA waves and water”, Journal of Physics: Conference Series, Iop Publishing, 2011, n. 306); (McTaggartLynne, “La scienza dell’intenzione”, Macro Edizioni, Cesena, 2012, pp. 53-301). Anche se questi studi sono stati in qualche modo disconosciuti da alcuni degli stessi firmatari, molti sono i fisici che, pur non riconoscendo la fedeltà scientifica di queste ricerche, ritengono che i liquidi possano essere influenzati dal pensiero. Se questo fosse vero, potrebbe essere altrettanto affascinante pensare che l’attenzione posta dall’operatore su un corpo che per più del 60% è fatto di liquidi, possa avere delle influenze sullo stato della materia e sulla funzionalità di quello stesso corpo.

In relazione a questo argomentoda oltre un decennio esiste la diatriba tra  la definizione di attenzione locale, attenzione divisa, attenzione ma non intenzione (perché se siamo intenzionali possiamo influenzare il sistema e quindi induciamo un potenziale cambio di stato). Con questa scusa, una parte della scuola americana in ambito craniale, sostiene che non bisognerebbe “visualizzare” l’anatomia del paziente nel corso del processo palpatorio diagnostico. Personalmente ritengo che ciò cheBecker definiva percezione sensomotoria, Sutherland la definì letteralmente “visualizzazione”. Sutherland insegnava “… voi valutate restando il più passivi possibile e poi visualizzate”. Penso che si fosse reso conto che una visualizzazione preventiva avrebbe portato a due rischi:

  1. il condizionamento della neutralità dell’operatore;
  2. il diventare induttivi,alterando così la registrazione sulla parte che in quel momento si sta valutando variando la percezione palpatoria(McFarlane S., Standen C., Roy D., “Patientperception of practitionerintention in osteopathy in the cranialfield – A preliminaryinvestigation”, Journal of Osteopathic Medicine, 2006, vol. 9, n. 1, p. 46).

D’altra parte è altrettanto vero che se non si effettuasse una visualizzazione l’operatore non avrebbe modo di orientare il peso del suo corpo sui propri punti d’appoggio, in questo caso sulla leva dell’arto superiore e  sul cingolo scapolare come abbiamo visto prima, e creare un’induzione sulla mano e quindi una stimolazione di tipo propriocettivo atta ad andare a registrare il livello che interessa. Quindi la visualizzazione diventa uno step fondamentale e questo si scontra secondo me in maniera decisa con quello che viene insegnato in campo biodinamico, e cioè  come sia  assolutamente scorretto visualizzare. Sutherland era molto chiaro nel sostenere che questo processo di visualizzazione avesse un’importante connotazione di tipo intuitivo. Quando ho letto questo passo ho ripensato al mio primo anno di studio dell’osteopatia in cui mi insegnarono che Still definiva l’osteopatia un’arte, termine che avevo considerato un po’ enfatico. Poi ho capito che con questo termine intendeva l’affinamento di quell’insieme di capacità personali, attitudine e genialità, che solo in parte è allenabile attraverso la pratica, e che è in gran parte legato a un fine talento soggettivo (GariaevP.P., Poponin V.P.et Al, “Investigationof the Fluctuation Dynamics of DNA Solutions by Laser CorrelationSpectroscopy”, Bulletin of the LebedevPhysicsInstitute, 1992, n. 11-12, pp. 23-30).

Probabilmente è in questo concetto che trova spazio il cosiddetto fenomeno sinestesico. La sinestesia letteralmente è l’associazione di più sensazioni, quindi la messa in campo di più afferenze di tipo sensoriale. Questo sembra essere presente a certi livelli della percezione osteopatica (“Cognitive neuroscience of synesthesia: Introdution to the special issue”WardJ.CognNeurosci. 2015;6(2-3):45-7. doi: 10.1080/17588928.2015.1055238. PMID: 26274902) in cui  l’operatore collega a certe sensazioni la presenza di colori piuttosto che di suoni . La prima volta che frequentai la dottoressa Frymann presso l’Osteophatic Center For Children, fui colpito dal fatto che quando trattava un bambino lei utilizzasse sempre una musica che sceglieva sulla base di una frequenza particolare in riferimento a quel bambino. Mi rendevo conto che associava la musica alla tipologia del bambino e a quello che lei aveva intuito su di lui, sulla base di personali sensazioni sinestesiche.

Prima ho citato il movimento presente del corpo (definito tale in quanto registrabile senza nessuna immissione di forza esterna sul segmento corporeo), in contrapposizione al cosiddetto movimento permesso (cioè la mobilità concessa da una struttura in relazione ad una forza immessa). Ho la sensazione che il movimento permesso sia la chiave di accesso per poter passare poi allo studio vero e proprio della funzione attraverso il movimento presente. Tramite il movimento permesso infatti l’operatore induce delle modificazioni che si adattano allo stimolo esterno da lui innescato per risolvere una perdita di  movimento. Questo processo funziona grazie a meccanismi neurologici riflessi che inducono inibizione. Ma inducendo mobilità su una struttura l’operatore riceve informazioni solo da quella struttura e non può avere la certezza di interrelazione tra i sistemi: vengono liberate tante strutture singole ma questo non corrisponde ad un concetto di globalità.Il movimento presente è invece quello che permette realmente di instaurare una relazione tra sistemi collegati, è una valutazione più oggettiva del funzionamento di una struttura, è la reale relazione tra struttura e funzione e permette di leggere la funzione interna.  Nella mia pratica ho avuto modo di notare in più occasioni che, valutando il movimento presente in un distretto, il paziente ricorda improvvisamente un evento della sua storia che non ha raccontato in fase anamnestica e questo mi ha fatto pensare ad una presa di coscienza del paziente rispetto al suo problema; la mia impressione è che ciò avvenga più facilmente col movimento presente rispetto al trattamento tramite  il movimento permesso. Cosa il movimento presente sia veramente, come scriveva Becker, nessuno lo sa. Vi sono molte teorie e una delle ultime sposa gli studi sui campi elettromagnetici del corpo ed in particolare sui campi morfogenetici (Beloussov L. V., Opitz J. M., Gilbert S. F., “Life of Alexander G. Gurwitsch and hisrelevantcontribution to the theory of morphogeneticfields”, The International Journal of DevelopmentalBiology, 1997, n. 41, pp. 771-779). La mia sensazione è che la bramosia, all’interno del mondo osteopatico, di trovare delle spiegazioni a ciò che facciamo faccia seguire con troppo fervore delle semplici ipotesi, sicuramente molto affascinanti ed interessanti, ma con scarsi riferimenti scientifici almeno al momento.

L’influenza dell’operatore sul sistema-paziente viene definito grado di “neutralità”: vari esperimenti fisici dimostrano che più l’operatore si trova in uno stato di allerta, con un’iperattivazione del proprio sistema ortosimpatico, e maggiore sembra essere il grado di influenza sul paziente. Inoltre, e questo è certamente dimostrato dall’esperienza di ciascuno di noi, questo stesso stato rende più difficoltosa la percezione palpatoria. È chiaro che in tutto questo l’esperienza gioca un aspetto molto importante. Ci hanno insegnato tante modalità per “centrarci”. Becker ad esempio ha insegnato ad usare i propri fulcri, cioè i punti di appoggio, perché questo permette di distogliere l’attenzione o meglio l’intenzione dalle mani. Per il resto Becker ripeteva che l’unico modo per diventare neutrali era praticare, praticare, praticare. In realtà credo non ci sia una regola che valga per tutti. Ognuno trova una propria modalità per migliorare la concentrazione e la tranquillità: chi meditando, chi facendo sport, chi nella pratica lavorativa. Un lavoro svedese di Eriksson et al. ha evidenziato che in materia di sviluppo delle competenze ci vogliono almeno 10000 ore di intensa pratica per considerarsi esperti in un determinato campo (Ericsson KA, Prietula MJ, Cokely ET. “The making of an expert”. Harv Bus Rev 2007;85:114—21. 19). Questo avvalorerebbe l’indicazione data dal dottor Becker: praticare è importante, e l’esperienza lavorativa insegna piano piano a neutralizzarsi (e quindi anche proteggersi) rispetto al paziente stesso.

Proprio sul concetto di esperienza, chiudo con questa frase di Oscar Wide che diceva che alla fine “l’esperienza è l’insegnante più complesso, perché prima ti fa l’esame, quindi ti mette alla prova”……e quindi, aggiungo io, se ci riesce ti spiega la lezione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *