Indagini sperimentali sul ruolo del SNA nella vulnerabilità/resilienza allo stress

Andrea Sgoifo

Prof Andrea Sgoifo, PhD, Università degli studi di Parma, dal seminario “Attualità sul Sistema Nervoso Autonomo: dal laboratorio sperimentale alle applicazioni cliniche“ – Parma, maggio 2018.

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“Lo stress è una condizione, uno stato del sistema nervoso centrale determinato da fattori ambientali, esterni ed interni, che vanno a modificare l’omeostasi dell’organismo” .
Quando l’organismo è in allarme si produce una risposta adattativa sia fisiologica che comportamentale atta a mantenere l’allostasi del sistema.
Questa risposta è tanto importante e tendenzialmente dannosa per la salute quanto più i fattori ambientali sono fuori dal nostro controllo in termini temporali e di portata.
Detto in altro modo, quanto più incontrollabile e imprevedibile è uno stimolo esterno, tanto maggiore è la risposta che attuiamo e maggiori sono, quindi, le possibili conseguenze fisiopatologiche.
Qualsiasi evento stressante o percepito come tale provoca una cascata di adattamenti nell’organismo che coinvolge tutti i sistemi: queste modificazioni vengono comunemente indicate come Acute stress Response, ossia risposta acuta allo stress.
Questa serie di adattamenti comportano l’aumento del battito cardiaco con un aumento della pressione arteriosa, la dilatazione dei vasi che irrorano i muscoli scheletrici, la costrizione dei vasi cutanei e splancnici, la dilatazione delle pupille e una gran mobilizzazione di substrati energetici.
È importante sottolineare la secrezione da parte delle surrenali di glucocorticoidi e catecolamine, sostanzialmente cortisolo, adrenalina e noradrenalina, ormoni per reagire velocemente e in modo efficace all’evento stressogeno così da riportare in fisiologia quanto prima il sistema.
Questi due tipi di ormoni sono la risposta dell’attivazione di due differenti assi dello stress:

  • un asse veloce, neurale, definito SAM, Sympatethic Adrenal Medulla, che inizia dall’attivazione da parte dell’ipotalamo del locus coeruleus, principale attore dello stress cerebrale il quale secerne noradrenalina, attiva il sistema nervoso simpatico e stimola la secrezione da parte della midollare del surrene delle catecolamine.
  • un asse lento, ormonale, definito HPA, Hypothalamic Pituitary Adrenal, il quale incomincia sempre con la stimolazione dell’ipofisi da parte dell’ipotalamo, la quale attraverso la secrezione di ACTH o ormone adrenocorticotropo, stimolerà a sua volta la secrezione di glucocorticoidi, principalmente cortisolo, da parte della corticale del surrene.

Vi è quindi, a partire dallo stimolo ambientale, un’attivazione che si muove in parallelo su due assi neuroendocrini, l’elaborazione centrale e l’attuazione di strategie che ci permettono di fronteggiare efficientemente il momento, il che si traduce in adattamento e sopravvivenza.

La normale risposta allo stress prevede due fasi ben distinte, una di seguito all’altra: una prima fase detta di attivazione, la cosiddetta reazione di “flight or fight”, atta a fronteggiare e risolvere il pericolo e, per farlo, deve essere veloce e potente a cui segue una seconda fase di disattivazione atta a far rientrare a regime minimo la fisiologia e, per riuscirci, dovrebbe essere rapida ed efficace.
Se queste due fasi non si susseguono in maniera corretta e non si risolvono nel minor tempo possibile, la stessa reazione allo stress diventa un fattore di rischio fisiopatologico dell’organismo.
Vista la rapidità di cambiamento degli stimoli stressogeni esterni ed interni rispetto ad un tempo e il mantenimento praticamente invariato della tipologia di risposta allo stress da parte dell’organismo, risulta più in pericolo colui che si disattiva meno velocemente rispetto a colui che si attiva lentamente.
“…..da una parte la nostra risposta di stress è un adattamento molto efficace ma deve essere adeguata quantitativamente e temporalmente in quanto, se risulta calibrata allo stimolo e limitata nel tempo si produce adattamento, se invece dovesse risultare inadeguata e prolungata nel tempo emergerebbe l’altra faccia della medaglia, quella del disadattamento, che favorisce inevitabilmente l’insorgenza di patologie o l’ingravescenza di quelle già esistenti”.
Un esempio di stress response adattativa è l’innalzamento del cortisolo durante l’attività fisica che ci permette di irrorare meglio i muscoli scheletrici, ci porta un adattamento del sistema cardio-polmonare e fa smuovere substrati per sopperire al dispendio energetico : al contrario un alto livello di cortisolo mantenuto nel tempo, dato magari da una vita lavorativa particolarmente stressante, associato ad inattività motoria, comporta per esempio, iperglicemia, ipercolesterolemia, iperinsulinemia, dislipidemia, placche aterosclerotiche.
La questione fondamentale è che abbiamo lo stesso kit di risposta di un semplice animale che fugge dal suo predatore, un kit predisposto per una risposta massiva efficace nel breve periodo mentre per noi sono cambiati drasticamente gli stimoli ambientali. “…nell’essere umano l’inibizione è un’azione fondamentale, la capacità di dilazionare e direzionare una risposta, di essere flessibili emotivamente, sono condizioni importanti per una vita sociale complessa come la nostra”.
L’iperattività simpatica che stimoliamo ogni qualvolta l’ambiente ci sollecita, se si prolunga nel tempo porta a sovraccarico allostatico e rappresenta un pericolo per la nostra salute.
Veniamo ora al modello di integrazione neuro-viscerale delle emozioni teorizzato da Julian Thayer il quale ha dimostrato, assieme ai suoi collaboratori, come i processi cognitivi-emozionali che coinvolgono l’adattamento e l’auto-regolazione, sono controllati dagli stessi network neurali che regolano le funzioni autonomiche e quindi lo stress. (Thayer and Lane, NBR, 2009)(*1)
Questo ci permette di introdurre l’hrv, heart rate variability, ossia la variabilità della frequenza cardiaca la quale risulta un indice diretto della bilancia simpato-vagale dell’organismo e quindi, indirettamente, dello stato di salute generale. È un modo indiretto e soprattutto non invasivo per misurare l’attività del cuore.
Quanto più la frequenza cardiaca è dinamica quanto più abbiamo una maggiore efficienza nell’adattamento alle variabili ambientali.
Il dominio del tempo serve a valutare la funzionalità del vago, il dominio della frequenza serve a vedere il vago nelle HF e il bilanciamento del SNA con il rapporto HF/LF.

Nell’animale, per poter fare questo tipo di studi, abbiamo bisogno di strumenti che non siano di per sé fattori di stress per l’animale stesso e che gli permettano di esprimere il proprio repertorio comportamentale in piena libertà. La radiotelemetria di origine aerospaziale ci ha permesso di acquisire e studiare attraverso l’impianto di microtrasmettitori, in tempo reale, in continuo, l’elettrocardiogramma, il tracciato della pressione sistolica/diastolica, la temperatura basale, l’attività fisica e molto altro.
Un dato davvero importante emerge dagli studi su modello animale: la componente vagale viene completamente compressa e annullata nel caso di sconfitta sociale mentre sostanzialmente la componente vagale si mantiene in equilibrio nelle altre fonti di stress. Quindi, la sconfitta sociale rappresenta la maggiore espressione tachicardica e la maggiore soppressione vagale nell’animale. Si è visto infatti come in questo tipo di stress/contesto gli eventi aritmici cardiaci siano estremamente rilevanti e frequenti (Sgoifo et all, NBR, 1999(*2),2009(*3)) e sono lo stesso tipo di eventi cardio-vascolari che notiamo nell’uomo sotto stress. Un basso livello di mediazione del vago, cioè un basso hrv infatti, si correla ad un aritmia ventricolare.

Uno studio fatto in collaborazione con alcuni colleghi utilizzando questa tecnica della variabilità cardiaca nel modello animale in cui abbiamo voluto confrontare la componente neurovegetativa in ratti ansiosi e ratti non ansiosi è stato fatto perché è risultato un buon modello in prospettiva traslazionale, per predire la disfunzione neurovegetativa e l’evento cardiovascolare nei soggetti con diagnosi accertata di ansia (Carnevali et al., Physiology and Behavior,2014)(*4) .
In questo studio i ratti sono stati valutati definendo il loro grado di ansia sulla base del comportamento mostrato all’esposizione in un labirinto a croce fatto per metà da aree protette e per metà da aree esposte: dividendo gli animali con scarsa esploratività da quelli più esplorativi si sono riuscite a individuare generazioni di ratti ansiosi da ratti non ansiosi. Graficando la frequenza cardiaca e il rapporto HF/LF di questi animali, campionate su andamento circadiano, si è notato che tra gli ansiosi e quelli non ansiosi non c’è sostanziale differenza ma ciò che cambia in modo determinante tra i due gruppi è la componente parasimpatica di controllo vagale nel dominio del tempo e delle frequenze: gli animali ansiosi quindi risultano sottomodulati nella loro componente parasimpatica e, siccome il rapporto simpato-vagale non cambia, significa che sono malmodulati anche nella loro componente simpatica.
Questo risultato ha una ricaduta sintomatologica perché se tratto questi animali con un agonista betadrenergico per esempio, noto insorgenza maggiore di aritmia cardiovascolare nel gruppo degli ansiosi. Un risultato simile, sempre utilizzando questi parametri, si è trovato confrontando gruppi di ratti con bassi e alti livelli di aggressività, la quale è sempre un tratto comportamentale che implica caratteristiche fisiologiche neurovegetative con rischi fisiopatologici correlati (Carnevali et al, PLoS One, 2013)(*5). Il quadro che ne deriva mostra la frequenza cardiaca più o meno simile nei due gruppi ma complessivamente la modulazione simpato vagale e la componete vagale in sé sono minori negli aggressivi rispetto ai non aggressivi. Trattati farmacologicamente, come nello studio precedente, gli aggressivi si sono mostrati ovviamente più aritmici.

Guardare solo la frequenza cardiaca è diventato limitativo e se ci pensiamo è stato l’errore che si è commesso per molto tempo prima di capire cosa ci fosse realmente sotto la frequenza cardiaca. Questo approccio è risultato molto utile per simulare una comorbidità che oggi è sotto i riflettori della comunità scientifica: la depressione e gli eventi cardiovascolari.

La depressione risulta essere un fattore di rischio indipendente per la patologia cardiovascolare al pari di obesità, colesterolo alto, inattività fisica etc.
Queste due condizioni patologiche condividono la disfunzione neurovegetativa: cioè sia nella depressione che nelle patologie cardiovascolari l’elemento ricorrente è la riduzione della variabilità della frequenza cardiaca la quale implica una disfunzione neurovegetativa (Kemp et al., Am J Psychiatry, 2014)(*6).

C’è da tempo una diatriba tra una linea di pensiero australiana e una olandese con punti di vista opposti sull’interpretazione di queste disfunzioni: secondo il gruppo olandese l’alterazione della funzione neurovegetativa che si riscontra nei soggetti depressi è la conseguenza del trattamento farmacologico (Licht et al., Archives of general Psychiatry, 2008)(*7) mentre il gruppo australiano pensa che questa disfunzione sia intrinseca alla patologia depressiva indipendentemente dal farmaco somministrato (Kemp et al., Biological Psychiatry, 2010)(*8).
Risulta difficile arrivare ad una definizione chiara lavorando sui soggetti umani mentre è più semplice nel modello animale dove posso indurre depressione, non trattarla farmacologicamente e verificare questo dilemma.
In questo senso è stato svolto un lavoro egregio dalla collega Angela Grippo negli Stati Uniti che ha studiato la depressione indotta in ratti.
Ha usato un metodo per indurre la depressione che si chiama CMS, Chronic Mild Stress, in cui l’animale viene esposto giornalmente per diverse settimane a diversi disturbi ambientali di varia natura ed ha potuto notare almeno un paio di sintomi della depressione ben traslabili alla condizione umana che sono:

  • la riduzione di preferenza per una soluzione zuccherina, sostanzialmente anedonia alimentare
  • la riduzione della propensione a svolgere attività motoria

Oltre a verificare questi aspetti ha rilevato, dal punto di vista neurovegetativo cardiaco, che la frequenza cardiaca era cronicamente aumentata, la variabilità cardiaca era cronicamente ridotta e che questi sintomi cardiaci rimanevano persistenti anche quando si estinguevano i sintomi comportamentali. Ha rilevato inoltre una aumentata vulnerabilità alle aritmie quando li trattava farmacologicamente e somministrando antidepressivo, tipo Prozac, in questi animali si aboliva la componente comportamentale dello stato depressivo ma non si correggeva l’alterazione neurovegetativa cardiaca (Grippo et al., 2002(*9), 2003(*10), 2008(*11), 2004(*12)).
“Nel nostro laboratorio, continua Sgoifo, da un po’ di anni ci stiamo interessando a questo link depressione-disfunzione neurovegetativa cardiaca-patologia cardiovascolare e assieme al collega Carnevali Luca abbiamo condotto diversi esperimenti utilizzando il modello che a noi sembra biologicamente attendibile che è il confronto sociale, lo stress sociale. Lo stress per questi animali è perdere il controllo sull’ambiente sociale. In questo studio di Carnevali et al, del 2012(*13) l’evento cruciale scatenante la depressione è la sconfitta sociale. L’idea anche qui è cercare di far qualcosa che sia traslabile alla condizione umana. Nella condizione umana eventi sociali avversi significativi spesso determinano un isolamento sociale dell’individuo, ovviamente autoindotto, mentre in questo studio lo abbiamo indotto noi, e siamo andati a guardare da una parte la sintomatologia diciamo pseudo-depressiva da un punto di vista comportamentale-neuroendocrino e dall’altra se ci fosse un riscontro neurovegetativo cardiovascolare. Abbiamo trovato, in linea con gli studi della collega Grippo, che esponendo l’animale all’aggressione di un suo conspecifico ne esce sconfitto e isolandolo, dopo circa tre settimane si instaura una condizione di anedonia alimentare, con diminuzione alla preferenza di soluzione zuccherina. Da un punto di vista neurovegetativo cardiaco, gli animali che hanno subito stress sociale non sono più in grado di modulare l’attività cardiaca se esposti ripetutamente ad uno stress; detto in altri termini, l’animale di controllo, esposto allo stesso tipo di stress (in questo caso open field test), tende a diminuire la risposta tachicardica e la compressione vagale, come se si abituasse, mentre gli animali esposti a stress sociale non mostrano questa riduzione attesa bensì continuano a tachicardizzare, a volte anche maggiormente, e perseverano nella compressione vagale”.

“Infine, continua il professor Sgoifo, voglio raccontarvi cosa stiamo effettuando qui allo Stress Control Lab, fondato da Mauro Fornari a cui partecipano attivamente Luca Carnevali, Elena Pattini, Angelica Candini e altre persone. Qui abbiamo l’ambizione di poter, attraverso una serie di parametri endocrini, neurovegetativi cardiaci, comportamentali e psicometrici, costruire un kit, un pacchetto di informazioni che consenta di distinguere, per esempio, l’efficacia di diversi tipi di trattamento in prospettiva “anti-stress”.
Le misure endocrine al momento si concentrano sul cortisolo salivare che è il parametro più consolidato e meno invasivo: dalla saliva oggi si possono fare determinazioni ormonali affidabili come cortisolo, ossitocina, melatonina.
Effettuiamo rilevazioni della variabilità della frequenza cardiaca e anche qui, per diminuire l’impatto, utilizziamo un dispositivo bluetooth che trasmette il segnale elettrocardiografico e poi esponiamo i soggetti ad alcuni tipi di fattori di stress in laboratorio che possono essere psicologici o fisici. Un classico che usiamo è il TSST, trier social stress test, messo a punto dal collega tedesco KIschbaum nel 1993, in cui il soggetto si trova di fronte a persone estranee vestite in modo formale che gli fanno domande e gli chiedono conti matematici a mente davanti ad una piccola audience, che sembra un test banale ma che riesce a produrre un’impennata cardiaca che può toccare i 150-160 battiti al minuto. È quindi un modello di stress efficace in laboratorio, non invasivo e molto utile per valutare quanto l’individuo, a seguito di un intervento antistress prolungato nel tempo, si modifica nella sua reattività a uno stimolo psicologico.
Alcuni dati, rappresentanti una sintesi degli studi pubblicati su Neuroscience and Biobehaviour Review(*15) e su PNEC(*16 )indicano interessanti correlazioni tra comportamento e risposta fisiologica allo stress . Noi, durante quello stimolo che induciamo in laboratorio, videoregistriamo l’individuo e siamo in grado di estrarre tutta una serie di informazioni relative al comportamento non verbale del soggetto.
Queste informazioni quindi ci permettono di comprendere in modo oggettivo, cioè non basandoci solo su questionari soggettivi, come l’individuo si sta adattando alla situazione.
La sostanza di queste correlazioni è che i soggetti che esibivano, davanti a quella situazione, un comportamento di maggiore sottomissione mostravano anche tachicardie più sostenute e compressioni vagali maggiori, sia durante l’intervista che nella fase appena successiva.
Un altro esempio di correlazione è la produzione, durante il test, di pattern di comportamento classificati globalmente sotto il termine “displaicement” ossia il ridirezionamento dell’ansia, cioè quelle attività che attuiamo nelle situazioni di disagio sociale come grattarci, giocare con la biro, muovere le gambe. Ebbene sono questi gli individui che, nella fase di recupero, normalizzano più rapidamente la tachicardia e la componente vagale dimostrando che questi comportamenti hanno un reale significato adattativo.
Ultimo articolo che ci tengo a mostrare,pubblicato nel 2017 con l’input di Mauro Fornari, è il primo frutto sostanziale dell’attività del laboratorio del CIO e ciò che abbiamo fatto è stato di sottoporre giovani adulti sani alla manipolazione osteopatica, effettuata sempre da Mauro, per evitare BIAS da variabilità di operatore, e studiarne l’andamento del cortisolo, della variabilità cardiaca rilevandoli prima, dopo il trattamento e nel tempo tra i trattamenti (Fornari et al., JAOA, 2017)(*17) .
L’idea era di stressare il soggetto per pochi minuti ed in seguito sottoporlo a manipolazione osteopatica o a trattamento sham di controllo, il tutto con misurazioni precedenti e successive di hrv e cortisolo salivare. L’articolo mostra chiaramente come grazie al trattamento osteopatico si inibisce e viene completamente bloccata la risposta del cortisolo che normalmente si ha nel gruppo di controllo sham”.

Bibliografia

    1. Thayer and Lane, NBR, 2009 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18771686
    2. Sgoifo et all, NBR, 1999 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10636307
    3. Sgoifo et all, NBR, 2009 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18573276;
    4. Carnevali et al., Physiology and Behavior,2014 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24518868/
    5. Carnevali et al, PLoS One, 2013 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23861886
    6. Kemp et al., Am J Psychiatry, 2014 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25158141)
    7. Licht et al., Archives of general Psychiatry, 2008 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19047522
    8. Kemp et al., Biological Psychiatry, 2010 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20138254
    9. Grippo et al.,Am J Physiology regulatory complementary integrative, 2002, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/11959673
    10. Grippo et al.,Physiology and Behavior 2003 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12782226
    11. Grippo et al.,Phycosomatic medicine, 2008 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18480191
    12. Grippo et al., Am J Physiology-Heart and Circulatory Physiology 2004 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/14715499
    13. Carnevali et al, Physiology and Behavior 2012 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22330326
    14. Grippo et al, Phycosomatic medicine, 2012, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3392416/
    15. Sgoifo et al.,NBR, 2003, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12732233
    16. Pico-Alfonso, Psychoneuroendocrinology, 2017, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=Pico-Alfonso+MA%5BAuthor%5D+2007
    17. Fornari et al., JAOA, 2017, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/28846122

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