PNEI e osteopatia: come la funzione modifica la struttura

Nicola Barsotti

di  Nicola Barsotti, D.O.*

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INTRODUZIONE 

E’ ormai assodato che l’occidente sta attraversando una fase di crisi generale, sia per ciò che riguarda i modelli culturali che scientifici. A questo riguardo è paradigmatico un articolo del 2012 del New England Journal of Medicine, in cui si sostiene che il sistema medico dominante ha portato a costi insostenibili, scarsità di risultati, frequenti errori medici, scarsa soddisfazione sia del medico che del paziente.  Le cause, per gli autori, dipendono dal fatto che il modello di riferimento si era strutturato per la cura di patologie acute su pazienti per la maggior parte giovani. Oggi però ci troviamo davanti a patologie croniche con pazienti anziani. L’approccio “ortodosso” quindi, non è più in grado di gestire in modo efficace la malattia e la salute. 

Il modello di riferimento che sta subentrando nel mondo della ricerca è quello biopsicosociale, introdotto dal professor George L. Engel in un articolo che ha fatto la storia della medicina e che fu pubblicato sulla prestigiosa rivista Science (Engel 1977). Engel sostiene che per comprendere lo stato di salute o di malattia di una persona è necessario considerare l’aspetto biologico ma anche quello psicologico e sociale (conta infatti anche il contesto nel quale una persona nasce e cresce).

 E’ importante notare che questo cambio di visione ha portato rivoluzioni in vari settori della medicina. In campo neurologico oggi si parla di network cerebrali, sinapsi complessa e modulabile, plasticità cerebrale, neurogenesi; in biologia di epigenetica e meccanobiologia; l’immunologia è vista come studio dei sistemi di regolazione interna; in psicologia si parla di neurobiologia; nel settore delle terapie manuali si parla di tessuto connettivo come struttura unificante che connette strutturalmente tutto il corpo e che ha effetti meccanochimici, biochimici, fisiologici, psichici; in fisiologia e patologia si parla di PNEI, psiconeuroendocrinoimmunologia(Bottaccioli & Bottacioli).

E, proprio in riferimento a questa nuova disciplina, la PNEI, è bene fare qualche precisazione. La PNEI non è una specializzazione biomedica, né biopsicologica, né una superspecializzazione ma un nuovo paradigma fisiopatologico e clinico. In sintesi, è un modello di ricerca e interpretazione della salute e della malattia che vede l’uomo come unità strutturata e interconnessa, dove i sistemi psichici e biologici si condizionano reciprocamente. 

Perché tutto questo è importante per l’osteopatia? Perché dà conferma, in termini scientifici moderni, delle incredibili intuizioni del dott. Still! Infatti, ben prima della scoperta del sistema immunitario, il padre dell’osteopatia credeva che nel sangue esistessero “corpuscoli indispensabili per la salute” (il sistema immunitario) e riteneva che rilassando i muscoli e liberando le articolazioni fosse possibile calmare i nervi del sistema simpatico, normalizzare la circolazione e dunque permettere ai “fermenti corporei” endogeni di sconfiggere l’infezione. In pratica, nell’800, il vecchio dottore aveva collegato struttura, sistema nervoso, sistema circolatorio e sistema immunitario! E’ anche interessante riportare ciò che disse un suo studente, S. H. Kjerner: “…(Still) non ha mai sostenuto che tutte le malattie fossero causate da alterazioni della struttura ossea”, anzi! La varie patologie potevano essere date da molteplici cause e, tra questi fattori “..si annoverano gli abusi funzionali di vario genere, come le condizioni di lavoro, l’abbassamento delle resistenze dovuto alla perdita di sonno, alla stanchezza, agli eccessi alimentari, etc…” e ancora Kjerner ci dice: “Ci spiegavano che i disturbi vertebrali creavano una situazione per cui venivano ad abbassarsi le resistenze in una certa parte del corpo e ciò che a sua volta consentiva l’attivazione dei batteri…” (Lewis 2016). 

In pratica, possiamo dire che Still è stato il fondatore della PNEI!

Chi ha poi insegnato l’importanza di una visione biopsicosociale è stato Irvin Korr, neurofisiologo e ricercatore osteopatico. A conferma di quanto detto, è importante riportare le sue parole: “Tutto quello che riguarda la persona – che si tratti di genetica, della sua storia dal concepimento al momento attuale, dell’alimentazione, di uso e abuso di corpo e mente, del condizionamento dei genitori e della scuola, degli ambienti fisici e socioculturali, e così via – è coinvolto nel determinare la qualità della funzione fisica e mentale. Quanto migliore è la qualità dell’«ambiente» che la persona procura alle componenti di corpo e mente, tanto meglio questi funzioneranno.” (Korr 2003).

Questo cambio di visione ha portato anche a una nuova interpretazione della disfunzione somatica e qui, sorprendentemente, scopriamo che probabilmente la prima persona che ha dato una definizione appropriata della disfunzione somatica è stato Hans Seyle, il padre moderno della PNEI. Nel suo famosissimo libro “Stress of life”, infatti, il ricercatore austriaco parla non solo della Sindrome Generale di Adattamento, ma anche della Sindrome Locale di Adattamento, definendola come una reazione infiammatoria cronica dei tessuti in risposta ad eventi stressanti dati da stimoli biologici, ambientali, fisici, emozionali (con riduzione locale del flusso circolatorio). Tale reazione può portare a una modificazione della trama tissutale e, da ultimo, se non corretta, può promuovere una sindrome generale di adattamento (Tozzi 2015, Chaitow, 2016, Lunghi 2017). 

L’osteopata quindi, attraverso la stimolazione della fascia, attiva i recettori del sistema nervoso con conseguenti modificazioni locali e sistemiche che coinvolgono il sistema immunitario, endocrino e il sistema nervoso centrale. 

Breve introduzione all’asse dello stress e all’attivazione sistemica dell’organismo

L’asse dello stress, detto HPA, ha origine da alcune aree ipotalamiche che, una volta attivate, vanno a stimolare le surrenali attraverso due assi: uno nervoso (sistema nervoso ortosimpatico) ed un endocrino. Il risultato finale è che le ghiandole surrenali rilasciano principalmente adrenalina, noradrenalina e cortisolo che hanno come target, oltre a vari tessuti, le cellule immunitarie che, attivandosi, rilasciano molecole infiammatorie. Queste ultime, per via umorale e per via nervosa, tornano all’ipotalamo e all’ipofisi andando a regolare sia l’asse HPA (tramite un meccanismo a feed-back negativo) che tutti gli altri assi neuroendocrini (alcuni si iperattivano ed altri si ipoattivano). A loro volta questi ormoni, alla periferia, modulano il funzionamento del sistema immunitario. 

Ciò che a noi interessa, in questa trattazione, è ricordarsi che l’asse HPA stimola il sistema nervoso ortosimpatico, il rilascio di cortisolo, di adrenalina e noradrenalina e attiva il sistema immunitario (Bottaccioli & Bottacioli). 

Ciò che adesso andremo a vedere è come queste molecole modifichino la struttura del nostro corpo e cioè  fascia, ossa e muscoli.

Iperortosimaticotonia e modificazioni della fascia

Nel 2009 un gruppo di ricercatori in campo PNEI ha scoperto che il TGF-β1, rilasciato dalle terminazioni nervose del sistema nervoso ortosimpatico, è in grado di modificare la tonicità fasciale. Nello specifico, questa molecola è in grado di trasformare i fibroblasti in miofibroblasti, cioè in cellule con proprietà contrattili. Tale aumento di tonicità fasciale ha vari effetti: provoca la perdita di acqua a livello locale, genera contratture fasciali durature nel tempo e a bassa spesa energetica,“strizza” le terminazioni nervose del sistema nervoso simpatico che rilasceranno quantità maggiori di TGF-β1. 

Nel tempo quindi, una situazione di stress cronico è in grado di alterare la struttura fasciale di tutto il corpo (Bhowmick 2009, Chiera 2017).

Cortisolo: gli effetti sulle ossa e sui muscoli in acuto e nella cronicità’

In acuto il rilascio di cortisolo ha un ruolo protettivo: aiuta i muscoli e le ossa nel loro rimaneggiamento indotto da stimoli meccanici. Più specificamente, nei muscoli stimola la degradazione di proteine mentre nelle ossa attiva gli osteoclasti. Questo parziale degrado permette l’adattamento a nuovi stimoli, ricostruendo i muscoli e le ossa più forti di prima dopo ogni stress acuto (Yao 2013, Schakman 2013).

In una situazione di stress cronico però tali sofisticati e benefici sistemi regolatori si “starano”. Addirittura, se il sistema immunitario si sbilanciata verso il circuito Th17 (fortemente infiammatorio), si ha una iperattivazione degli osteoclasti con conseguente osteoporosi e aumento significativo di rischio di frattura (Lee 2013).

Non solo: l’eccesso di cortisolo, tramite l’attivazione degli osteoclasti, fa aumentare la secrezione di FGF23 “fattore di crescita dei fibroblasti 23” che può portare a patologie renali, cardio-vascolari, atrofia del timo e astenia (Yao 2013).

Infine, l’eccesso di cortisolo riduce la produzione di osteocalcina a livello osseo. Le conseguenze?  Non sono di poco conto. L’osteocalcina, infatti, è un ormone osseo vitale per il buon funzionamento del testosterone e dell’insulina (e quindi ha come target rispettivamente i testicoli e il pancreas) (Karsenty 2014).

A livello connettivale in una situazione di stress cronico, il cortisolo e le catecolamine causano l’atrofia dei tendini. Ma non solo: il tessuto connettivo interno agli organi diventa duro e fibrotico, impedendo il corretto funzionamento degli organi stessi (Kucharczyk 2016).

Inoltre l’eccesso di cortisolo causa una crescita di adipociti, con conseguente  accumulo di grasso viscerale ed intramuscolare. Ciò provoca un alterato funzionamento organico con conseguente infiammazione, locale e sistemica (Boscaro).

Noradrenalina, adrenalina, estrogeni: gli effetti sulla fascia nella cronicità’

Non soltanto il cortisolo ha effetti deleteri sulla struttura del corpo in una situazione di stress cronico. L’eccesso di noradrenalina, infatti, causa il rilascio di radicali liberi (ROS) che danneggiano il tessuto connettivo (Deo 2013), e favorisce l’aumento della produzione di MMP12 (metalloproteinasi) che determinano il rilascio tissutale di TGF-β1. In questo modo si attiva un binomio estremamente deleterio per la fascia: ROS e TGF-β1 insieme, inducono i fibroblasti a diventare miofibroblasti, cioè cellule dotate di filamenti di α-SMA capaci di rendere il tessuto connettivo contrattile (Wipff 2008). 

Chiaramente, in acuto, l’aumento della contrattilità del tessuto è funzionale. Ad esempio aiuta la riparazione di una ferita. Nel cronico, invece, favorisce la formazione di fibrosi (con conseguente produzione di citochine infiammatorie), aderenze tissutali e cicatrici sempre più estese e forti. 

La relazione tra fascia ed ormoni però non finisce qua. Il sistema miofasciale infatti, ha recettori per gli ormoni sessuali. Non a caso troviamo recettori per estrogeni nei sinoviociti del rivestimento sinoviale, nei fibroblasti del legamento crociato anteriore, nelle cellule del muro dei vasi sanguigni del legamento.

In vitro, si è visto che l’aggiunta di estradiolo in dosi fisiologiche riduce di oltre il 40% la sintesi di collagene e la proliferazione dei fibroblasti nel legamento crociato anteriore. Inoltre, l’estradiolo, direttamente o indirettamente, tramite la riduzione di IGF-1, inibisce la sintesi di collagene indotta dall’esercizio (Liu 1997).

Diventa chiaro, quindi, che è fondamentale chiedere alle nostre pazienti con dolori cronici se fanno uso di terapie ormonali come la pillola anticoncezionale o la terapia sostitutiva ormonale in menopausa. Sappiamo infatti che gli estrogeni modificano il metabolismo e la struttura del collagene tramite un aumento della lassità legamentosa che si verifica durante la fase follicolare del ciclo mestruale. Inoltre, sempre gli estrogeni inducono nei fibroblasti la produzione di collagenasi (che degrada il collagene) che facilita il prolasso degli organi e la rottura legamentosa (Goldring 2016). Non è un caso che l’uso di contraccettivi sia correlato a lombalgia, fratture ossee, persistente dolore pelvico ed instabilità articolare pelvica (Hansen 2008).

La relazione tra sistema immunitario e fascia in acuto

L’eccesso del cortisolo stimola l’iperattivazione del circuito immunitario Th2 e, nello specifico, alcune cellule dell’immunità naturale: i macrofagi, i mastociti e i neutrofili. Vediamo, uno alla volta, come questi modificano la fascia.

Partiamo dai macrofagi. In acuto ripuliscono il tessuto connettivo dalle tossine o dai microbi extracellulari e contribuiscono a regolare l’infiammazione, favorendo la guarigione tissutale (o la fibrosi). I macrofagi li troviamo in ogni tessuto e, quando mancano, causano gravi problemi nello sviluppo degli organi perché sono capaci di regolare l’integrità tissutale, la crescita dei vasi sanguigni e la crescita delle cellule stesse (Chiera 2017). 

Vediamo adesso i mastociti. Anch’essi, in acuto, hanno ruolo protettivo: degranulano fattori infiammatori per la protezione ambientale (es.: punture di insetti) e rilasciano gli enzimi triptasi e chimasi che degradano il tessuto connettivo per rimodellarlo. Ad esempio durante un riscaldamento sportivo, l’aumento di temperatura indotto dal sistema nervoso ortosimpatico, l’attivazione del metabolismo muscolare e il rilascio degli enzimi triptasi e chimasi, rendono il sistema miofasciale malleabile e pronto ad eseguire sforzi.

Infine, vediamo i neutrofili. In acuto fagocitano e degranulano molecole antimicrobiche, rilasciano oppioidi nell’area lesa (funzione analgesica) e attivano i vari processi infiammatori. Non solo, formano anche le cosiddette NET, “trappole extracellulari neutrofile” che immobilizzano e distruggono gli agenti patogeni. Se però vengono fagocitati dai macrofagi, si ha un aumento di citochine infiammatorie e sviluppo di infiammazioni croniche come arteriosclerosi, malattie autoimmuni o fibrosi tissutali (Chiera 2017).

La relazione tra sistema immunitario e fascia nel cronico

Partiamo da questa considerazione: la fascia è il principale terreno di azione del sistema immunitario e l’infiammazione altera la MEC (matrice extracellulare).

In una flogosi cronica, l’IL-1, IL-6 e TNF-α rilasciate da fibroblasti, adipociti, mastociti, linfociti e/o cellule vascolari (tutte presenti nel tessuto connettivo) provocano un aumento di MEC e di MMP con conseguenti  fibrosi, anche estese, e sostituzione del tessuto epiteliale, muscolare o nervoso originario, con fibre connettivali.

Ad esempio a livello meccanico i legamenti crociati ed i menischi si induriscono, portando alla perdita di mobilità del ginocchio , lo sviluppo di una cicatrice in un organo ne compromette la funzionalità (ad esempio la fibrosi epatica può poi diventare cirrosi). 

Va chiarita una cosa molto importante: le modifiche si verificano nella cronicità anche con incrementi lievi ma continui di citochine (maggiori anche solo di 2-3 volte). Chiaramente le modifiche non avvengono subito ma nel tempo e quando appaiono i sintomi, l’infiammazione è già in corso da molto tempo (Ibidem).

I mastociti sul tessuto connettivo in una situazione cronica determinano in primis, tramite il rilascio di MMP, degradazione del tessuto connettivo e attivazione di segnali infiammatori. La fascia viene “mangiata”, diventando fragile e permeabile. Le aree “bucate” vengono riempite da fibre collagene e il tessuto connettivo interno diventa duro e fibrotico, alterando il funzionamento organico (Berg 2011). Inoltre, il rilascio di istamina nell’ambiente favorisce la trasformazione dei fibroblasti in miofibroblasti.

Due parole vanno dedicate anche ai macrofagi: di recente si è scoperto che queste cellule immunitarie sono meccanosensibili, cioè, se la fascia è in normotensione, si trasformano in M2 (forma allungata con actina più dispersa alla periferia con effetto antinfiammatorio). Di contro, se la fascia è in tensione, si trasformano in M1 (forma tonda con accumulo di F-actina intorno al nucleo con effetto proinfiammatorio). Quando la morfologia dei macrofagi è stata forzata in allungamento, i macrofagi si trasformano in M2 (Kim 2019).

In ultima analisi, vediamo gli effetti dei neutrofili nella fascia in una situazione di infiammazione cronica. Per prima cosa, il ph si riduce: se scende a 6,6, si ha una riduzione di glucosamminoglicani (con conseguente perdita di acqua tissutale) e l’attivazione dell’EMT (Epitelial Mesenchymal Transition), che trasforma le cellule epiteliali in fibroblasti. Questa trasformazione non è rara. Spesso infatti troviamo cellule, provenienti da foglietti embrionali differenti che si trasformano in altre cellule. Sia in fisiologia (riparazione tissutale) che in patologia (fibrosi e tumori) vediamo che molte cellule possono diventare fibroblasti. 

Conclusioni

Risulta chiaro che la “legge di Still” che mette in relazione reciproca struttura e funzione è non soltanto vera ma anche attuale. Questo vuol dire che nella professione osteopatica è necessario conoscere la fisiologia integrata proposta dalla PNEI. E’ fondamentale infatti capire che l’osteopata ha a disposizione alcune armi. Non tutte. Se il “terreno” del nostro paziente è infiammato, è molto probabile che la nostra terapia manipolativa sia inefficace. Non è un caso che Still, e i suoi allievi abbiano sempre sottolineato l’importanza dell’educazione del paziente ad avere stili di vita appropriati per la risoluzione della propria problematica. 

Per comprendere la fisiologia del paziente possiamo usare questionari appositi durante l’anamnesi (come il questionario MUS) o utilizzare strumenti semplici e non invasivi come quelli che misurano l’HRV, cioè la variabilità della frequenza cardiaca. Questo strumento ci da’ informazioni indirette sul bilanciamento del sistema nervoso autonomo,  sull’attivazione dell’asse dello stress e sulla salute, sull’infiammazione sistemica, sulla progressione o meno di una patologia (Thayer 2018).

Non a caso in letteratura si valutano gli effetti dell’osteopatia sul controllo dell’infiammazione (Degenhardt et al., 2014), sul bilanciamento del SNA (Ruffini et al., 2015), sull’aumento della conta dei leucociti (D’Alessandro 2016), sulla riduzione della sensitizzazione neurale (Ibidem), sul rilascio di endocannabinoidi (McPartland 2008).

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*Nicola Barsotti, D.O. – membro ROI e fisioterapista, è da anni docente di anatomo-fisiologia del sistema nervoso autonomo e di fisiologia integrata PNEI presso il CIO – Collegio Italiano di Osteopatia nelle sedi di Bologna e Parma. Coordinatore della Commissione Nazionale di Ricerca Discipline Corporee (DIS-CO) della SIPNEI (Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia) e membro del direttivo nazionale della stessa società. E’ co-autore del libro “La PNEI e il sistema miofasciale: la struttura che connette” uscito nel 2017 (ed. Edra Elsevier), autore del capitolo “La medicina osteopatica” all’interno del libro “Psiconeuroendocrinoimmunologia e Scienza della cura integrata – il manuale” curato da F. Bottaccioli e A.G. Bottaccioli e co-autore del libro “ a PNEI e le discipline corporee” uscito nel 2018. Ha firmato vari articoli scientifici su riviste mediche italiane, è stato relatore in congressi nazionali e internazionali e docente in diversi corsi postgraduate osteopatici. Membro C.O.M.E. Collaboration onlus, insegnante PNEIMED. E’ socio fondatore del C.M.O. – Centro di Medicina Osteopatica e Terapie Integrate a Firenze.

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