Interocezione e sensitizzazione come elementi chiave nella pratica osteopatica

INTEROCEZIONE E SENSITIZZAZIONE COME ELEMENTI CHIAVE NELLA PRATICA OSTEOPATICA

FRANCESCO CERRITELLI

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Presidente fondazione C.O.ME COLLABORATION – ONLUS Dottorato in neuroscienze e imaging – Università degli studi di Chieti-Pescara

CONVEGNO 2016 – OSTEOPATIA E STRESS – PARMA, 24 – 25 Settembre

«La medicina scientifica integrativa non è una disciplina o un metodo di trattamento bensì un nuovo modo di pensare che applica la teoria dei sistemi per comprendere la normale fisiologia e i disturbi clinici, fornendo un quadro di riferimento per capire le complesse e dinamiche sollecitazioni che minacciano l’integrità del nostro organismo e, di conseguenza, per sviluppare nuovi trattamenti basati sulla complessità e il dinamismo» (Goldstein 2013b, p16).

L’interocezione può essere definita come il processo di rappresentazione, istante per istante, delle sensazioni somatiche provenienti dal corpo stesso (Craig, 2002). Una definizione più ampia descrive l’interocezione come un costrutto multidimensionale, comprendente le modalità con cui il soggetto valuta e reagisce a tali sensazioni (Cameron, 2001). È interessante notare che diversi problemi di salute sono connessi con l’alterazione dei processi interocettivi, fra cui il dolore cronico (Schmidt et al., 1989), i disturbi post-traumatici da stress (Wald and Taylor, 2008), i disturbi affettivi (Paulus and Stein, 2010), le dipendenze (Naqvi and Bechara, 2010), i disturbi alimentari (Pollatos et al., 2008, Herbert and Pollatos, 2014), i disturbi somatoformi (Mirams et al., 2012, Schaefer et al., 2012) e i disturbi dissociativi (Hankin, 2012, Michal et al., 2014, Sedeno et al., 2014).

La sensitizzazione viene definita come una risposta di amplificazione, avente basi neurologiche, prodotta dagli stimoli ripetuti. Ad oggi, le evidenze confermano in maniera omogenea che diversi sottoinsiemi di pazienti, sia sofferenti che esenti da sindromi dolorose, sono affetti da una sensitizzazione documentata. Ciononostante, non è stato ancora chiarito con quali misure e test si possa riconoscere tale condizione di sensitizzazione in modo clinicamente oggettivo (per le linee guida, si veda Nijs et al., 2010).

Lo stretto legame tra interocezione e sensitizzazione (Flor et al., 2004), le risposte individuali alla sensitizzazione in funzione del tempo (Baron et al., 2013) e la variabilità clinica inter-personale creano uno scenario in cui gli operatori devono affrontare un ampio spettro di condizioni cliniche, a volte caratterizzate da quanto segue:

  1. sintomi inspiegabili, come ad esempio il dolore al petto che può dipendere da un’elaborazione aberrante del dolore proveniente dall’esofago, a causa della sensitizzazione delle cellule nel corno dorsale spinale e dei centri sovra-spinali (Mertz et al., 1998);
  2. patogenesi indecifrabile, come per esempio un attacco di angina proiettato sul sito di una vecchia frattura vertebrale (Henry e Montuschi, 1978);
  3. eterogeneità clinica, che considera gli effetti neurovegetativi come un importante co-aspetto delle manifestazioni cliniche del paziente;
  4. validità clinica causale degli esami strumentali, cioè il fatto che l’aggravarsi dell’osteoartite sembra essere associata alla sensitizzazione piuttosto che all’effettiva degenerazione articolare verificata con i punteggi radiologici (Arendt- Nielsen et al., 2010);
  5. esiti incomprensibili dei trattamenti, ovvero il fatto che l’iperalgesia muscolare riferita può persistere anche a lungo dopo la scomparsa del focolaio principale nel viscere (Giamberardino, 2003);
  6. prognosi imprevedibile, es. la presenza di un processo di sensitizzazione dopo una lesione da colpo di frusta si rivela importante per prevedere lo sviluppo della cronicità (Sterling et al., 2003);
  7. incertezza degli effetti e dei meccanismi terapeutici a livello clinico rispetto al livello scientifico

I sette punti sopra menzionati potrebbero evidenziare la normale eterogeneità tipica della pratica clinica quotidiana, che a sua volta potrebbe influire negativamente sulla capacità dell’operatore di ottenere risultati ottimali per migliorare la salute dei pazienti. Tuttavia alcuni risultati neurologici scoperti negli ultimi vent’anni di ricerca scientifica e basati soprattutto sull’interocezione e sulla sensitizzazione, potrebbero forse rivoluzionare la modalità con cui gli operatori «interagiscono» con il paziente nel contesto clinico.

Secondo la teoria dell’omeostasi, lo stress è da considerarsi uno stato o una condizione nella quale le aspettative non corrispondono più alle percezioni dell’ambiente esterno o interno (Goldstein and McEwen, 2002). Quest’incongruenza produce risposte secondo modelli e compensazioni capaci di modificare non solo la fisiologia di un organo bersaglio ma anche la reazione generale del corpo. Lo stress può essere interpretato come un segnale di errore, scatenato da diverse fonti o trigger (cioè lesione traumatica, condizione psicologica, malattie genetiche e/o acquisite) che possono riflettere la differenza tra l’informazione afferente per come viene percepita, l’elaborazione neurale centrale «multimodale» e una serie di effetti provocati da un’entità regolatrice, forse da individuarsi nel SNA (Goldstein, 2013a). Da questa teoria scaturisce intuitivamente un’applicazione clinica pratica utile per interpretare l’anamnesi clinica del paziente e gli effetti del trattamento.

Scopo della presente presentazione è introdurre, discutere e diffondere i concetti di interocezione e di sensitizzazione che stanno emergendo nel contesto della medicina manuale e in particolare nell’osteopatia. A tal fine proponiamo un paradigma interdisciplinare e innovativo (il «paradigma interocettivo») per interpretare sia i segni e i sintomi del paziente sia le variazioni fenomenologiche del paziente stesso, sottolineando il possibile uso di tale paradigma per ulteriori ricerche cliniche e di laboratorio.

 

Implicazioni per la terapia manuale, in particolare per l’osteopatia

Come regola generale, i concetti sopra citati possono essere applicati in qualsiasi approccio para-medico, ivi compresi i metodi che si avvalgono del contatto manuale. Nell’ambito della presente revisione, i paragrafi successivi sono soprattutto dedicati alla trasposizione dei concetti di sensitizzazione e interocezione nel campo dell’osteopatia, un approccio della medicina manuale che non si avvale di farmaci, e che usa il contatto manuale e la manipolazione per effettuare la diagnosi, la valutazione e il trattamento (Cerritelli et al., 2015a, Cerritelli et al., 2015b). Le procedure osteopatiche includono una valutazione strutturale seguita da un trattamento. La valutazione strutturale mira a diagnosticare le disfunzioni somatiche. Comprende un’accurata valutazione manuale del cranio, del rachide, del bacino, dell’addome, degli arti superiori e inferiori allo scopo di individuare le regioni corporee nelle quali sussiste un’alterazione di specifici parametri tissutali. Il trattamento si articola nell’applicazione di una gamma di tecniche manipolative, finalizzate ad alleviare le disfunzioni somatiche. Nonostante sia precipuamente focalizzata sull’osteopatia, la presente revisione ha tra i suoi obiettivi anche quello di proporre una pratica clinica moderna e fondata sulle neuroscienze, capace di «leggere e interpretare» i segni e sintomi dei pazienti in modo ampiamente condiviso da parte di tutte le discipline.

Sono davvero poche le ricerche che hanno studiato l’effetto della manipolazione osteopatica sulle funzioni cerebrali. Fryer et al. hanno sottolineato che l’applicazione di una singola manipolazione osteopatica ad alta velocità e bassa ampiezza sull’articolazione lombosacrale può ridurre l’eccitabilità riflessa spinale e corticospinale, misurata con TMS ed EMG, suggerendo un effetto inibitore al livello del midollo spinale (Fryer and Pearce, 2012).

Inoltre, il TMO sembra essere associato a una riduzione delle sostanze pro-infiammatorie sia in vitro (Meltzer and Standley, 2007) che in vivo (Licciardone et al., 2012, Licciardone et al., 2013), inducendo a ipotizzare che il TMO abbia un ruolo antinfiammatorio, pur se soltanto parzialmente confermato dalle recenti ricerche in ambito clinico (Degenhardt et al., 2014).

Le manipolazioni osteopatiche, pertanto, potrebbero ridurre la liberazione di citochine e l’attività simpatica, innescando una cascata di eventi biologici e neurologici che modulano i meccanismi antinfiammatori e neurovegetativi. È stato dimostrato che l’applicazione del TMO influisce sul SNA, producendo un effetto parasimpatico (Giles et al., 2013, Henley et al., 2008, Ruffini et al., 2015) e dunque portando verso uno stato di sintonizzazione trofotropica (Ruffini et al., 2015). È interessante notare che non è stata rilevata alcuna differenza nel controllo, sottoposto a una simulazione che prevedeva un leggero contatto manuale con semplice toccamento. Ciò potrebbe implicare che la produzione di effetti è legata alla somministrazione di un contatto manuale «tecnico». Per questo motivo, l’operatore e la sua formazione rivestono un ruolo centrale.

Ancora più recentemente, alcune evidenze basate su ricerche di laboratorio hanno dimostrato l’effetto di tecniche osteopatiche specifiche sul potenziamento del sistema immunitario e linfatico (Schander et al., 2012, Schander et al., 2013) migliorando la conta dei leucociti e l’interleuchina 8 (IL-8). Questi risultati sono stati confermati in un recente articolo del 2014, che ha riscontrato differenze significative nei livelli delle molecole immuni, ivi inclusa l’IL-8, confrontando il TMO e il controllo, che consisteva in una simulazione con leggeri sfioramenti (Walkowski et al., 2014). Il TMO, quindi, potrebbe avere effetto anche sul profilo immunologico di specifiche citochine e leucociti presenti nella circolazione. Come suggerito da Xanthos e SandkNhler, per interrompere il circolo vizioso neuro-infiammatorio neurogeno, potrebbero essere raccomandati trattamenti e interventi mirati su vari livelli, onde inibire la fonte dell’infiammazione e dei processi neuro-infiammatori, oppure per favorire la risoluzione dell’infiammazione (Xanthos and SandkNhler, 2014). Ipotizzando che il trattamento osteopatico possa soddisfare questi requisiti, e in particolare l’azione antinfiammatoria, si potrebbe sostenere che l’esposizione all’osteopatia possa interrompere la neuro-infiammazione e ridurre gli esiti patologici.

Tuttavia, anche se alcune evidenze iniziali hanno cercato di studiare i meccanismi d’azione dell’osteopatia, non vi è alcun consenso su quali possano essere i «canali» utilizzati dall’osteopatia per produrre i suoi effetti. In effetti, storicamente la conoscenza diagnostica della medicina manuale è basata e costruita sulla considerazione prevalentemente esterocettiva del sintomo (cioè, su interpretazione posturale, catene muscolari) la quale a sua volta poggia sul puro «paradigma muscolo- scheletrico» o «paradigma esterocettivo», per cui (1) l’attività afferente propriocettiva/esterocettiva è integrata (2) nei sistemi motori centrali e (3) l’efferenza fuoriesce attraverso la via finale comune di Sherrington (motoneuroni alfa-gamma del corno anteriore del midollo spinale). Questo è il tipo di «paradigma esterocettivo» usato, per esempio, nell’ipotesi di Korr, secondo cui il riflesso di allungamento monosinaptico iperattivo può spiegare la riduzione dell’ampiezza motoria (o range of motion – ROM) (Korr, 1975, Howell et al., 2006). Tuttavia, ai fini della pratica clinica di routine, è importante che gli operatori clinici riconoscano che le sensazioni provenienti dal corpo, come il dolore, sono neurologicamente diverse dalla propriocezione e dalla meccanocezione tattile a tutti i livelli. Infatti gli operatori della medicina osteopatica (OM) si trovano quotidianamente dinanzi a casi che non possono essere spiegati completamente dal «paradigma esterocettivo» in quanto privo di un «sistema di lettura clinica» che sia capace di considerare il paziente come un tutto unico e non come una semplice entità corporea muscolo-scheletrica. Per questa ragione è auspicabile adottare un approccio più ampio, forse più idoneo a meglio spiegare, valutare, collegare e prevedere i segni e i sintomi dei pazienti.

Proponiamo qui il «paradigma interocettivo» nel quale (1) l’alterazione (acuta e cronica) delle informazioni interocettive conduce a (2) «stati di sensitizzazione» (SS) neurologici che esprimono la loro disfunzionalità tramite (3) un’attivazione alterata del sistema neurovegetativo (SNA) il quale a sua volta (4) porta il tessuto periferico a uno stato di ipersensibilità e, quindi, getta le basi di un (5) circolo vizioso metabolico e neurologico (anello a retroazione positiva) e a un rapido indebolimento del sistema. Il riconoscimento di questo paradigma porterà notevoli vantaggi/benefici nella pratica clinica:

  • appropriata interpretazione clinica dei sintomi rispetto agli aspetti causali e patogeni;
  • pertinente capacità di «leggere» e «spiegare» l’anamnesi clinica, collegando gli aspetti relativi alle funzioni organiche, alla neurologia e all’adattamento/compensazione patofisiologica;
  • adeguata comprensione dei rispettivi ruoli nel rapporto medico-paziente.

Anche se secondo alcuni autori (SandkNhler, 2007, Cervero, 2009) la sensitizzazione è uno stato di accresciuta eccitabilità a livello cellulare, essa può anche essere interpretata secondo una prospettiva più ampia, sia a livello clinico che comportamentale (Coppola et al., 2013, Ursin, 2014), descrivendola come un’accresciuta sensitività al dolore oppure come una maggiore eccitabilità del sistema nervoso centrale (SNC). È stato dimostrato che per innescare, mantenere o compromettere il processo di sensitizzazione è necessaria la presenza di uno stimolo (Melzack et al., 2001, Affaitati et al., 2011, Baron et al., 2013). In quanto stimolo-dipendente, la sensitizzazione può essere considerata una risposta adattiva del SNC alle sollecitazioni ambientali che si presentano attraverso l’afferenza nocicettiva, che non deve necessariamente essere percepita soggettivamente (Kidd and Urban, 2001, SandkNhler, 2009, Treede et al., 1999). Questo fatto è molto importante sia per quanto attiene alla raccolta dell’anamnesi che, più in generale, per quanto concerne la formulazione di una diagnosi. Secondo una prospettiva terapeutica, è importante considerare che il contatto manuale potrebbe costituire un potenziale stimolo capace di modificare lo stato di sensitizzazione. In effetti, recenti evidenze hanno dimostrato l’importanza di un tocco delicato/affettivo per attivare le fibre CT e quindi modulare le vie interocettive. Ciò causa una reazione a livello centrale la quale a sua volta evoca una serie di eventi neurologici che inducono il SNA a rispondere a un determinato stimolo. Questo tipo di contatto è diverso dal ben noto «tocco esterocettivo» che viene mediato dai meccanocettori a bassa soglia (LTM) innervati dalle afferenze A-beta. Questo «tocco esterocettivo» è in grado di rilevare rapidamente, discriminare e individuare gli stimoli esterni per preparare un’appropriata trasformazione senso-motoria. D’altro canto le CT, presenti soltanto sulla cute pelosa/capelluta e non su quella glabra, rispondono agli stimoli meccanici lenti (1-10 cm/s) e deboli (0,3-2,5 mN) (Perini et al., 2015). È stato dimostrato che le CT sono inoltre sintonizzate su una temperatura di 32°C e sono associate al tatto sensuale (Perini et al., 2015, Ackerley et al., 2014) il che ne evidenzia non solo una funzione rilevante a livello sociale (Perini et al., 2015) ma anche un possibile ruolo nello sviluppo neurologico nel periodo perinatale (Bystrova et al., 2009).

Per tradurre queste evidenze nel campo clinico della medicina manuale basata sul tatto occorre sottolineare che, pur se il ruolo delle CT nella modulazione del dolore (e specialmente nell’esperienza dell’allodinia) rimane una questione aperta (Delfini et al., 2013, Nagi et al., 2011), la base razionale per gli approcci della medicina complementare, come il tocco terapeutico può essere ricercata nell’affinità interocettiva di un ben preciso tipo di contatto manuale, capace di attivare le CT (Craig, 2013). Inoltre, questi risultati rivelano che le sensazioni corporee, come per esempio il dolore, sono intrinsecamente legate alle condizioni neurovegetative, come ad esempio allo stravaso plasmatico o al ritmo cardiaco, in quanto si tratta degli aspetti, rispettivamente sensitivi e motori, del medesimo sistema omeostatico. Inoltre, è importante considerare che anche il tocco esterocettivo, mediato dai meccanocettori a bassa soglia, potrebbe modulare l’attività efferente del SNA, specialmente a livello locale (JRnig, 2006, Craig, 2014). Pertanto alla luce della letteratura neuroscientifica predominante è possibile sostenere l’esistenza, anche se non ancora formalmente verificata, di un rapporto tra gli effetti delle terapie manuali, in particolare dell’osteopatia, e le implicazioni interocettive.

È interessante notare che, proseguendo nel trasferimento dei paradigmi neuroscientifici al campo dell’osteopatia, Livingstone (1943) ha proposto che l’attività afferente prodotta dai nevi periferici danneggiati inneschi un modello alterato dell’attivazione all’interno del midollo spinale. Questo autore sosteneva che si verificasse un disturbo nel pool internuciale degli interneuroni del corno dorsale, il che causava un’attività di riverbero che si diffondeva in varie regioni del midollo spinale, ivi inclusa la catena simpatica. Un innalzamento dell’attività nell’efferenza simpatica interferirebbe con la vasoregolazione e indurrebbe ulteriore ipersensibilità del tessuto periferico, conducendo a un aumento dell’afferenza e a un circolo vizioso dell’attività centrale-periferica. Come descritto sopra, se questo processo perdura a lungo si produce uno stato di sensitizzazione. Pertanto, se si ipotizza che il tocco osteopatico produca un effetto antinfiammatorio e iper-parasimpatico, si può sostenere che, mediante la modulazione dell’attivazione vegetativa, possa potenzialmente causare effetti a retroazione positiva sullo stato di sensitizzazione.

Come osservazioni finali, si ricorda la differenza paradossale tra la presenza di fenomeni interocettivi e di sensitizzazione nella pratica clinica osteopatica e la quasi totale assenza di questi concetti nel corpus filosofico, diagnostico e terapeutico della OM. Questo paradosso diviene drammatico se si considera la natura neurologica «qualitativa» (intero/nocicettiva) del sintomo finale che ci si trova ad affrontare nel setting medico: il dolore. Come sostiene Craig, dal punto di vista terapeutico è importante considerare che quando i pazienti riferiscono la loro sintomatologia è possibile che in realtà stiano descrivendo la condizione dei sistemi omeostatici (Craig, 2013). Resta tuttavia incerto il grado di precisione con cui i pazienti descrivono gli stati interni (Petersen 2015). In effetti, potrebbe risultare importante ascoltare e registrare le sensazioni spontanee dei pazienti durante la fase del trattamento. Ciò potrebbe rappresentare una potenziale retroazione omeostatica/allostatica in tempo reale, potenzialmente utile per ottimizzare il piano del trattamento. Inoltre, è importante considerare che lo stato emotivo/psicologico del paziente (cioè l’ansia o la paura) deve essere riconosciuto come parte del processo percettivo. Questo è particolarmente rilevante quando vengono descritti sintomi valutati soggettivamente (cioè dolore e dispnea) (Petersen 2015) visto che determina una sopravvalutazione o una sottovalutazione dei dati interocettivi/nocicettivi.

Inoltre, è stata sottolineata l’importanza dell’interazione tra il cervello e il corpo ai fini del mantenimento dell’omeostasi. Non si tratta soltanto di una regolazione dall’alto verso il basso o riflessa, è anche una questione dei segnali che provengono dagli organi e influiscono sul funzionamento del cervello. L’efferenza del SNC addetta al controllo della propria efferenza autonoma presenta una sorprendente differenziazione: non soltanto vi sono differenti neuroni che possono influire selettivamente sui motoneuroni parasimpatici o somatici, vi sono anche diversi neuroni che proiettano in differenti distretti corporei. In base a tutte queste informazioni, il cervello stabilisce l’equilibrio delle differenti parti del SNA, modificando l’importanza dell’efferenza neurovegetativa a seconda della situazione. Nel caso in cui tale equilibrio venga perturbato, vuoi a causa del comportamento vuoi per una malattia dell’organo/tessuto, ciò può condurre a una patologia capace di influire sul funzionamento dell’intero individuo. Infatti, numerosi studi di ricerca avvalorano l’ipotesi che la mancanza di equilibrio nell’efferenza neurovegetativa verso un singolo organo possa avere effetti non soltanto sull’organo stesso ma anche sull’intera fisiologia corporea.

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